12 anni fa il caso del “paziente di Berlino” aveva dato una scossa al mondo della ricerca, ma si pensava fosse un caso unico. Ora ecco il caso di Londra
Era il 1983 l’anno in cui i ricercatori riuscirono finalmente a vedere il virus dell’HIV: nei laboratori dell’Istituto Pasteur di Parigi, l’immunologa francese Françoise Barré-Sinoussi fu la prima persona al mondo a vedere il virus al microscopio. Questo le valse il Premio Nobel per la Medicina nel 2008, condiviso con l’allora direttore del laboratorio Luc Montagnier. Da quel momento in poi, la ricerca per trovare una cura efficace contro l’AIDS non si è mai fermata.
I DUE CASI DI REMISSIONE DI HIV
È di ormai 12 anni fa la notizia di un primo caso di remissione del virus in un paziente affetto da HIV, soprannominato il “paziente di Berlino”. Timothy Ray Brown, oltre ad essere sieropositivo, era affetto da una forma di leucemia mieloide acuta che non rispondeva ai trattamenti chemioterapici e, per questo motivo, è stato sottoposto a trapianto di cellule staminali midollari nel 2007. Per il trapianto, i medici hanno cercato un donatore compatibile che avesse la mutazione delta-32 in omozigosi del gene CCR5 (ovvero su entrambe le copie del gene), una variante che dà una resistenza all’ingresso del virus dell’HIV nelle cellule. Per delle complicanze, dopo circa un anno, il paziente si è dovuto sottoporre a un nuovo trapianto, per il quale fu scelto lo stesso donatore. A distanza di più di 10 anni, gli esami non rilevano né cellule cancerose né HIV. I ricercatori pensavano che fosse un caso più unico che raro, anche a causa dei tentativi falliti di ripetere la procedura su pazienti con una storia clinica simile. Ed è proprio per questo che la recente notizia di un secondo paziente in remissione a lungo termine ha fatto velocemente il giro del mondo.
I ricercatori dell’Imperial College e dello University College di Londra hanno pubblicato un articolo su Nature che descrive un caso simile a quello di Timothy Brown. Il “paziente di Londra”, per ora anonimo, ha molte similitudini con il “paziente di Berlino”: anche lui sieropositivo con una neoplasia (linfoma di Hodgkin) e che non reagiva alla chemioterapia. Anche in questo caso, a causa del linfoma, i medici hanno optato per un trapianto di staminali ematopoietiche da un donatore con la mutazione delta-32 del gene CCR5. Il paziente non ha più assunto farmaci antiretrovirali dal settembre 2017 e ad oggi non ha segni rilevabili di infezione virale da HIV. Ovviamente, il tempo di osservazione, circa 18 mesi, è ancora relativamente breve per dichiarare il paziente “guarito” e per ora si parla di remissione a lungo termine.
PUNTARE SUL GENE CCR5
Pur essendo un caso molto simile a quello di Timothy Brown, questo secondo caso presenta alcune differenze e queste potrebbero essere importanti per studiare un ipotetico approccio terapeutico in altri casi di pazienti sieropositivi e con una neoplasia che necessita di un trapianto di cellule staminali. Innanzitutto, il “paziente di Londra” ha subito un solo trapianto e ha avuto una preparazione al trapianto meno tossica e pesante, senza l’irradiazione corporea totale. Una seconda differenza è che il “paziente di Berlino” era di per sé eterozigote per la forma delta-32 del gene CCR5, cioè aveva già una copia del gene con la mutazione legata alla resistenza all’HIV. E si pensava che questo potesse essere favorevole per la procedura. Dal caso più recente si evince invece che non è un prerequisito necessario per avere risultati positivi. La cosa più importante, al momento, sembra essere l’assenza di varianti virali dell’HIV che usano CXR4 come proteina di ingresso, come ad esempio la variante del virus X4 o R5X4. In questo caso si rimane vulnerabili all’infezione, dato che il virus utilizza una “porta d’ingresso” diversa da quella codificata dal gene CCR5.
LA VIA DELLA TERAPIA GENICA
Il caso del “paziente di Londra” indica quanto sia importante il gene CCR5 come obiettivo per lo sviluppo di una terapia genica che riprogrammi il sistema immunitario umano per difendersi dall’HIV. Questo gene – famoso anche per il caso delle gemelline cinesi modificate geneticamente con la tecnica CRISPR – codifica per una proteina che si trova sulla membrana dei leucociti e che è coinvolta nella risposta del sistema immunitario. Molte forme del virus dell’HIV sfruttano questa proteina come “porta d’ingresso” per infettare le cellule e diffondersi nell’organismo. Cosa non possibile nel caso della mutazione delta-32 in omozigosi del gene, che quindi protegge dall’ingresso del virus. Questa mutazione è naturalmente presente nell’1% circa della popolazione europea ed è stato dimostrato essere legata anche a una maggior sensibilità al virus del West-Nile. Molti stanno facendo ricerche in questo campo: il primo studio clinico focalizzato sulla manipolazione genetica, ex vivo, del gene CCR5 è iniziato nel 2009 e nel 2014 sono stati pubblicati i risultati sul New England Journal of Medicine. Durante il trial, i linfociti T sono stati prelevati da 12 pazienti sieropositivi, sono stati modificati con la tecnica delle nucleasi a dita di zinco (ZFN), un sistema di editing genomico che precede l’avvento di CRISPR, per non produrre più la proteina CCR5 funzionale e successivamente reinfusi nel flusso sanguigno dei pazienti stessi. La procedura è risultata abbastanza sicura ma, nel momento in cui i pazienti hanno sospeso la terapia antiretrovirale, la carica virale è tornata alta. Questo potrebbe essere dovuto al numero di cellule modificate, troppo poche rispetto alla totalità dei linfociti T rimasti vulnerabili all’ingresso del virus.
Questo mette in evidenza la complessità di questa strategia: bisogna tenere in considerazioni più fattori, dal numero di cellule da modificare per avere dei risultati rilevabili e duraturi, al non inserire mutazioni al di fuori del gene CCR5. Inoltre, per quanto riguarda i due casi con remissione, è vero i risultati sono entusiasmanti, ma il trapianto di midollo osseo non può essere preso in considerazione come soluzione per tutti i casi di sieropositività. Questa strategia è stata scelta in primis come trattamento per i tumori, e solo in seconda battuta per l’AIDS. Il trapianto di midollo osseo è una procedura complessa, costosa e rischiosa che può avere conseguenze importanti, anche letali. Gli antiretrovirali restano ancora la soluzione preferibile nei casi di infezione da HIV, dato che la maggior parte dei pazienti risponde bene a queste terapie. Nei casi in cui la presenza di neoplasie concomitanti necessitino di trapianto di midollo, allora si potrebbe scegliere un donatore con il gene CCR5 mutato, ma questo non può essere il trattamento standard per l’HIV. Ad oggi, la stima mondiale è di 37 milioni di persone che convivono con il virus, e al di là delle nuove tecnologie e terapie possibili, la prevenzione resta fondamentale per la lotta contro l’AIDS.