Fegato

Avviato negli Stati Uniti uno studio clinico per valutare un trattamento in grado di generare nuovo tessuto epatico in pazienti con malattie terminali del fegato, non idonei al trapianto d’organo

Dieci anni fa i ricercatori dell’università di Pittsburgh curarono alcuni topi da laboratorio affetti da una grave forma di insufficienza epatica, facendo crescere uno o più fegati ausiliari nei loro linfonodi. Entro quest’anno, la procedura verrà sperimentata per la prima volta sugli esseri umani al Massachusets Institute of Technology di Boston (Stati Uniti). Dodici pazienti si sottoporranno ad un protocollo di trapianto di cellule epatiche nei linfonodi con l’obiettivo di avere la formazione di nuovi fegati in miniatura all’interno del loro corpo. Il nuovo tessuto epatico, se pur in una sede diversa da quella originale, dovrebbe aiutare i pazienti a recuperare la funzione persa. La terapia è destinata a chi non può sottoporsi a un trapianto di organo intero e a chi rischia di morire in attesa di un fegato nuovo.

TRAPIANTI, I NUMERI E LE ATTESE

Dopo la brusca frenata del 2020, conseguenza della prima ondata di COVID-19, nel 2021 il numero di trapianti nel nostro Paese è tornato ad aumentare e il tasso di donazione è risalito a 22,9 donatori per milione di abitanti, come prima della pandemia (dati del Ministero della Salute). La speranza è che il trend sia confermato anche nel 2022, ma il numero di malati che hanno bisogno di un trapianto è sempre molto più alto rispetto agli organi disponibili.

Nel 2021, c’erano circa 8000 pazienti iscritti alle liste per i trapianti, e il 12,7 % aspettava un fegato. Il tempo medio di attesa per un trapianto di fegato è di 1 anno e 6 mesi.

IL TRAPIANTO DI EPATOCITI

Mentre possiamo vivere senza un rene, senza la cistifellea e persino senza lo stomaco, non esistono presidi in grado di sostituire il tessuto epatico perso. Il fegato ha più di 200 funzioni – le principali sono l’emulsione dei grassi e la produzione di colesterolo, la difesa dell’organismo e l’eliminazione di sostanze tossiche o farmaci. È anche uno dei pochi organi in grado di autorigenerarsi, ma se il danno supera una certa estensione il trapianto è l’unica soluzione.

Non è però un’opzione percorribile per i pazienti che hanno un quadro clinico già grave e non possono sottoporsi a una operazione così invasiva. La ricerca sui trapianti per fortuna sta percorrendo nuove strade, come quella degli xenotrapianti (da animale a uomo) o dei trapianti cellulari.

Al posto dell’organo intero si possono iniettare le cellule di un donatore sano, che rispondono ai segnali del fegato morente e rigenerano il tessuto epatico in loco, oppure cellule staminali epatiche, come avvenuto due anni fa a Torino su tre neonati colpiti da gravi e rarissime malattie metaboliche.

Uno dei pionieri del trapianto di epatociti è stato Eric Lagasse, biologo all’università di Pittsburgh. Gli esperimenti suoi e del suo team di ricerca consistevano nel trapiantare cellule di un fegato sano in topi modello con una funzione epatica danneggiata. Ma anziché iniettarle direttamente nell’organo interessato, una procedura rischiosa su un animale così piccolo, i ricercatori trasferivano le cellule nella milza e in vari altri organi e le osservavano migrare fino al fegato.

Alcuni topi sono morti, ma altri hanno recuperato la funzionalità epatica con miglioramenti clinici. Ma la vera sorpresa arrivò con l’autopsia: i topi avevano sviluppato due o più fegati ausiliari che per supportare le funzioni del primo.

UN FEGATO NUOVO NEI LINFONODI

I fegati extra, molto più piccoli di quello originale, erano cresciuti nel posto “sbagliato”: all’interno dei linfonodi vicini all’organo danneggiato. Il nostro organismo contiene centinaia di linfonodi: piccoli organi tondeggianti che rappresentano stazioni intermedie del sistema immunitario, al loro interno le cellule immunitarie si moltiplicano per difenderci contro patogeni e agenti estranei. I ricercatori li hanno definiti “bioreattori” perché ospitano cellule a rapida proliferazione e hanno facile accesso alla rete sanguigna e ai nutrienti. In questi incubatori naturali, le cellule trapiantate possono facilmente proliferare e formare nuovo tessuto epatico, mentre nell’organo già gravemente cirrotico o fibrotico le probabilità di attecchimento sono più basse.

La capacità delle cellule di rigenerare il tessuto epatico anche al di fuori del fegato apre quindi la strada a nuove possibilità di trapianto. I ricercatori hanno cominciato a sperimentare questa tecnica una decina di anni fa sui topi per poi passare a modelli animali di grandi dimensioni, come ad esempio i maiali. Dopo 30-60 giorni, le cellule hanno attecchito nei linfonodi: dopo circa due mesi, gli animali hanno mostrato una ripresa della funzionalità epatica con segni di miglioramento clinico. Il tessuto cresciuto nei linfonodi aveva l’aspetto di un fegato in miniatura e le sue dimensioni erano pari al 2% di quelle dell’organo principale.

Le cellule, spiegano i ricercatori, formano solo il tessuto necessario a ripristinare la funzione persa, grazie a un meccanismo che blocca la rigenerazione del fegato quando questo raggiunge di nuovo le sue dimensioni iniziali. L’estensione del nuovo tessuto è quindi sempre proporzionale al fegato perso e sembra anche in grado di stimolare le funzioni dell’organo principale.

LO STUDIO CLINICO

Negli ultimi anni i ricercatori hanno lavorato per fare l’importante salto allo step successivo: la sperimentazione clinica. La Food and Drug Administratione (FDA) statunitense ha infatti dato l’ok per l’avvio di uno studio clinico di Fase II, condotto dall’azienda biotech LyGenesis per valutare la sicurezza, la tollerabilità e l’efficacia della strategia terapeutica. Il trattamento sarà sperimentato su 12 pazienti, dai 18 ai 70 anni, con malattie terminali del fegato. Le cellule epatiche verranno iniettate direttamente nel linfonodo bersaglio, con l’aiuto di un endoscopio.

Il trial è progettato con un protocollo in aperto e a dose crescente: il primo paziente riceverà 50 milioni di cellule in un linfonodo, il secondo 150 milioni di cellule in tre linfonodi e il terzo 250 milioni di cellule in sei linfonodi. Tutti i volontari saranno monitorati per almeno un anno e sottoposti a una terapia con farmaci anti-rigetto, come avviene per i trapianti d’organo.

Oggi circa il 10% dei pazienti che hanno bisogno di un fegato nuovo muore nell’attesa del trapianto. Gli organi donati sono pochi e in qualche caso non utilizzabili, perché espiantati troppo tardi o perché hanno subito danni. Ma anche se l’organo intero non può più essere trapiantato, le sue cellule sono ancora vive e possono essere quindi iniettate nei linfonodi dei pazienti. I ricercatori hanno calcolato che con un unico fegato sarebbero in grado di aiutare fino a 75 persone: una rivoluzione nella medicina dei trapianti.

Con il contributo incondizionato di

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