Stampa
Fegato

Uno studio italiano ha testato la sicurezza di un trattamento a base di cellule staminali epatiche in tre neonati colpiti da rare e gravissime malattie metaboliche ereditarie

Si tratta di una notizia che è stata riportata da molte testate giornalistiche, non solo perché il successo di questo intervento è da ascrivere ad un team di ricerca tutto italiano ma anche - e soprattutto - perché i piccoli pazienti che soffrono di queste rare patologie non possono far altro che attendere un trapianto di fegato che, purtroppo, non sempre si rende possibile nei primi mesi di vita con conseguenze per molti di loro spesso fatali. Pubblicato lo scorso dicembre sulla rivista internazionale Stem Cell Reviews and Reports, lo studio ha coinvolto medici e ricercatori dell’Ospedale Regina Margherita e dell’Ospedale Molinette afferenti alla Città della Salute di Torino, oltre che del Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino (MBC). Un assalto diretto e plurispecialistico ad un insieme di patologie le cui ricadute sui neonati rischiano di diventare davvero molto gravi.

Puntare alle patologie ereditarie del metabolismo proteico

“Vista la capacità delle nostre cellule staminali epatiche di produrre urea e albumina abbiamo deciso di studiarle su pazienti affetti da malattie monogeniche enzimatiche a espressione epatocitaria nelle quali viene meno l’espressione di un enzima del ciclo dell’urea”, spiega il dott. Marco Spada, Direttore della Pediatria e del Centro Regionale per la cura delle malattie metaboliche del Regina Margherita. Il ciclo dell’urea comprende gli enzimi che servono a incorporare l’ammonio nell’urea per eliminarlo con le urine: la mancanza anche di uno solo di questi enzimi può portare all’accumulo di ammonio con conseguenze letali per l’organismo. “Per questo abbiamo scelto di partire da patologie ereditarie del metabolismo proteico che comprendono i difetti del ciclo dell’urea e le acidosi organiche quali l’acidemia metilmalonica e l’acidemia propionica che sono malattie del catabolismo degli aminoacidi ramificati”, prosegue Spada. “I bambini da esse affetti vanno in coma già tra la seconda e la terza giornata di vita e devono essere stabilizzati e portati al trapianto di fegato, l’organo più stressato perché quello in cui l’ammonio viene elaborato e incorporato nell’urea”.

Lo studio clinico

La sperimentazione condotta dal dott. Spada insieme al prof. Giovanni Camussi, del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino, si è dunque basata sull’infusione di cellule staminali epatiche direttamente nel parenchima epatico dei tre bambini tramite un’iniezione eco-guidata. In questa prima fase dei studio i tre piccoli pazienti sono stati sottoposti a due iniezioni settimanali a dosi differenti (il primo bambino più basse, gli ultimi due più alte) di cellule staminali e sono stati accuratamente monitorati per verificare l’impatto sul loro organismo delle nuove cellule. “Queste cellule sono state identificate per la prima volta nel 2006 e si ottengono a partire da quelle di fegato adulto con una tecnica di selezione tramite un mezzo di coltura che elimina le cellule differenziate e permette di espandersi solo a quelle più indifferenziate con caratteristiche di staminalità”, spiega il prof. Camussi. “A questo punto le cellule esprimono alcuni marker mesenchimali e altri di cellule staminali di tipo embrionale mantenendo il loro fenotipo di staminale indifferenziata”. Le ricerche sulle cellule staminali del fegato stanno interessando sempre più ricercatori di tanti atenei e centri ospedalieri nel mondo, ma il punto di forza del lavoro italiano è che queste cellule sono state impiegate come “soluzione ponte” per la correzione della malattia nei bambini, consentendo loro di ritardare il momento del trapianto che, in individui così giovani, ha percentuali di rischio molto più elevate rispetto ai soggetti adulti. “L’EMA ha riconosciuto alle cellule staminali epatiche lo stato di ‘orphan drugs’ per la terapia delle patologie del ciclo dell’urea e dell’epatite fulminante”, prosegue Camussi. “Sono cellule con caratteristiche proliferative multiple e, tramite appropriate stimolazioni, possono andare incontro a una differenziazione di tipo osteogenico o endoteliale oppure, tramite l’aggiunta degli opportuni fattori di crescita, possono differenziare in epatociti maturi. Tuttavia, come tutte le terapie cellulari allogeniche, hanno anche dei limiti e con questo studio abbiamo voluto valutarne prima di ogni cosa la biosicurezza e la non cancerogenicità”.

I dati sulla sicurezza

Gli studi effettuati precedentemente su modelli animali di epatite fulminante hanno consentito ai ricercatori di farsi un’idea delle potenzialità di queste cellule dal momento che infuse hanno significativamente ridotta la mortalità, limitando i danni e fornendo un effetto di transitoria sostituzione di funzione. Prima di parlare di efficacia sull’uomo è necessario passare attraverso una seconda fase di studio, con un numero maggiore di pazienti. “Nei nostri tre pazienti abbiamo registrato un aumento del peso corporeo e dell’apporto proteico e una buona stabilizzazione clinica”, conclude Camussi. “Il risultato più consistente tuttavia è la sicurezza delle infusioni. Non c’è stata induzione di anticorpi HLA di classe I che avrebbero potuto avere effetti negativi su un successivo trapianto d’organo ed abbiamo evitato il ripetersi delle crisi iperammoniemiche che possono essere causa di profondi danni cerebrali. I pazienti sono stati stabilizzati e traghettati verso il trapianto. Da adesso sarà necessario procedere con la ricerca per valutare in maniera mirata l’efficacia delle infusioni con queste cellule staminali”.

Nuove applicazioni

“A Torino siamo stati tra i primi a credere nel trapianto di fegato precoce, con cui questi bambini guariscono”, aggiunge il dott. Spada. “Per ciò era importante mettere a punto una terapia che permettesse loro di arrivare nelle migliori condizioni al momento del trapianto”. E a maggiore testimonianza di ciò, si aggiunge la notizia dello studio di Fase I condotto dal prof. Renato Romagnoli, Direttore del Centro Trapianti di Fegato delle Molinette, che sta usando le cellule staminali epatiche caratterizzate dal prof. Camussi anche su un modello di insufficienza epatica acuta per studiare la possibilità di portare al trapianto pazienti in condizioni critiche che rischierebbero altrimenti di non raggiungere questa importanza e salvifica tappa del loro percorso terapeutico.

Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento Maggiori informazioni