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Team Graziano Martello

La scoperta arriva da un gruppo di ricerca padovano e contribuirà ad allargare il campo di studio delle cellule staminali umane. Ne parliamo con il prof. Graziano Martello che ha guidato lo studio.

Alla presentazione di un prototipo di Formula 1 vincente tutti rimangono a bocca aperta di fronte al prodotto finale, spesso incapaci di comprendere che l’autentica rivoluzione sul piano tecnico giace sotto una carrozzeria fiammante. Un concetto che serve a dimostrare la centralità della ricerca di base in ogni campo del sapere umano dall’ingegneria alla biologia: ecco perché la scoperta di un gene che permetta di “conservare” la pluripotenza delle cellule staminali può spalancare porte finora rimaste sprangate nella ricerca di nuovi trattamenti per patologie ancora senza risposta. Lo studio è stato pubblicato il 12 maggio su Nature Communications e porta la firma del prof. Graziano Martello, del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, che ci racconta la sua ricerca.

“A differenza delle staminali dell’adulto che si limitano al mantenimento e alla riparazione del tessuto a cui appartengono - spiega Martello - le staminali embrionali e le iPSC (cellule staminali pluripotenti indotte) sono completamente indifferenziate e possono dare origine a qualsiasi cellula del nostro corpo, dai neuroni, ai muscoli fino agli epatociti”. Inizialmente le cellule staminali pluripotenti si ottenevano dagli embrioni in fase molto precoce ma l’accendersi del dibattito etico e la scoperta dei fattori di Yamanaka - che nel 2012 è valsa al ricercatore giapponese il Premio Nobel - hanno cambiato le modalità con cui i ricercatori le producono, chiamando in causa il processo di riprogrammazione. Prendendo dei fibroblasti (cellule della pelle) e facendo esprimere una sequenza di quattro specifiche proteine, Yamanaka ha scoperto come fosse possibile riprogrammare le cellule e riportarle “indietro nel tempo” in uno stato di pluripotenza, a partire da cui esse possono differenziarsi in tanti tipi cellulari diversi. È così che si ottengono le cellule staminali pluripotenti indotte.

LO STUDIO PADOVANO
Graziano Martello ha coordinato una giovanissima squadra di ricercatori - tutti i membri hanno un’età inferiore a 40 anni – che ha lavorato all’identificazione di un gene responsabile della “conservazione” delle cellule staminali pluripotenti, come appunto le staminali embrionali o le cellule staminali pluripotenti indotte. “Da anni studiamo le cellule staminali pluripotenti, sia quelle derivate da embrioni che le iPSC, non solo nell’uomo ma anche nel topo”, continua Martello, responsabile del Laboratorio di cellule staminali pluripotenti dell’Università di Padova. “Tuttavia, mentre la conoscenza delle staminali di topo è piuttosto articolata, conosciamo molto meno quelle umane. Il nostro punto di partenza è, dunque, coinciso con la volontà di scoprire quali siano i geni più importanti per mantenere tali cellule in modalità indifferenziata”. Infatti, prima di espanderle o di farle differenziare in vari tipi cellulari, le staminali devono poter essere mantenute stabilmente in coltura. “I metodi fino ad oggi usati si basavano su una procedura empirica che prevede l’aggiunta di TGF-beta”, specifica l’esperto. “Si tratta di un inibitore che frena il differenziamento delle cellule ma in tutti i laboratori si utilizza senza sapere perché svolga proprio questa funzione. Per comprendere quale fosse il suo ruolo e quali geni attivasse abbiamo intrapreso un lungo cammino di ricerca che ci ha portato ad indagare più di 4mila geni. Alla fine abbiamo ristretto il campo a una quindicina di candidati testati in maniera estensiva per più di due anni, al termine dei quali abbiamo trovato quattro geni regolatori della staminalità. Il più importante di essi è ZNF398”.

Si tratta di un gene che codifica per un fattore di trascrizione e attiva un pannello di geni capace di mantenere sia lo stato di pluripotenza delle cellule che la loro stessa morfologia. “Ma le cellule staminali pluripotenti si ottengono anche per riprogrammazione”, aggiunge Martello. “Per cui il perno del nostro lavoro è consistito nel disattivare il gene ZNF398 per osservare cosa sarebbe accaduto durante la procedura di riprogrammazione. Abbiamo così potuto notare che le iPSC non si formavano correttamente, deducendo come questo sia un gene di controllo chiave per la corretta identificazione e il mantenimento delle cellule staminali”. Ma tutto ciò quale significato riveste? Alcuni filoni di ricerca - come quelli che in astronomia portano alla scoperta di una stella o di una galassia vicina - incuriosiscono ma non sembrano veicolare vantaggi pratici in grado di migliorare la nostra quotidiana esistenza. Posto che il pilone su cui poggia tutto il nostro sapere è proprio la ricerca di base, dalla quale è poi possibile sviluppare progetti di studio la cui applicabilità rimane indiscutibile, si potrebbe affermare che le potenzialità del progetto del prof. Martello e della sua équipe hanno le caratteristiche delle cellule da loro studiate. Si declinano in tantissime applicazioni di laboratorio.

APPROFONDIRE LO STUDIO DELLE iPSC UMANE
“La produzione delle cellule staminali da pazienti diversi non è un procedimento semplice”, prosegue Martello. “È un processo che si compone di più tentativi e occorre ogni volta selezionare le colonie migliori e lavorare duramente per caratterizzarle. Ma ora che abbiamo capito quali sono i geni chiave, riteniamo sia possibile identificare fin da subito le colonie migliori. In questo senso, ZNF398 è una cartina tornasole che serve a far rapidamente capire se la popolazione di cellule staminali ottenuta sia o meno di qualità. Poiché, quando le cellule staminali non si generano correttamente questo gene non risulta attivato”.

In secondo luogo, la ricerca del team padovano contribuirà ad allargare il campo di studio delle cellule staminali umane. Infatti, il cocktail di fattori elaborato da Shinya Yamanaka – che comprende Oct4, Sox2, Klf4 e cMyc - è stato scoperto e testato su cellule staminali embrionali murine e su topi transgenici. Solo successivamente si è visto essere in grado di funzionare nell’uomo. “Con ZNF398 e gli altri geni da noi scoperti - precisa Martello - potremo ottenere nuovi e migliori protocolli per generare le cellule staminali umane dal momento che ora sappiamo quali sono i geni giusti da usare. È sorprendente che la combinazione di Yamanaka funzioni anche nell’uomo ma ora possiamo migliorare ancora il risultato finale, aprendo nuovi scenari e incrementando l’efficienza e la qualità delle cellule staminali prodotte”.

Lo studio - frutto della collaborazione con il prof. Salvatore Olivero, responsabile della piattaforma di analisi genomiche dell’Università di Torino presso il Centro Interdipartimentale di Biotecnologie Molecolari (MBC), e con l’Italian Institute for Genomic Medicine (IIGM) di Candiolo (TO) - avrà ripercussioni radicali sul lavoro di tutti i laboratori che utilizzano le cellule staminali a scopi terapeutici. A ulteriore dimostrazione di come le innovazioni che rendono unico e inestimabile un prodotto non sempre siano le più evidenti.

 

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