Dal 2014, anno in cui un gruppo di ricercatori è riuscito a sviluppare cellule beta del pancreas a partire da cellule staminali pluripotenti, numerosi laboratori e biotech hanno iniziato a studiarle per trovare una cura contro il diabete di tipo 1.
Prosegue a ritmo sostenuto lo studio delle cellule staminali come possibile terapia per il diabete di tipo 1. Lo scorso 17 settembre infatti, durante il meeting annuale dell'Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD), svoltosi a Barcellona in Spagna, sono stati presentati i dati preclinici di una versione di cellule staminali embrionali umane (Human embryonic stem cells o hESC) modificate con la tecnica di editing genomico CRISPR, in modo da non provocare una reazione di rigetto.
Nel diabete di tipo 1 il sistema immunitario distrugge le cellule beta del pancreas, che in condizioni normali rilasciano l’insulina: l’ormone che regola i livelli di glucosio ematico. Il controllo degli zuccheri nel sangue è una funziona vitale, per cui le persone che sono affette da diabete di tipo 1, hanno bisogno di controllare ogni giorno la glicemia e compensare questa carenza con la somministrazione di insulina esogena. Diverso è il caso del diabete di tipo 2, in cui ci sono ancora cellula beta, anche se poco funzionati, e l’iniezione di insulina è richiesta sole nei casi più gravi. Un’alternativa è il trapianto di pancreas, ma gli organi non sono facili da trovare. Oppure, utilizzare cellule staminali pluripotenti, per “ricreare” le cellule beta del pancreas, in grado di produrre l’insulina e rilasciarla quando esposte a glucosio. Le cellule staminali pluripotenti d’altra parte non sono altro che cellule primitive, non specializzate, che hanno la capacità di trasformarsi in qualsiasi altra cellula del corpo.
I primi risultati che hanno aperto la via delle staminali
Nel 2014, un gruppo di ricerca dell'Università di Harvard è riuscito a sviluppare cellule beta derivate da cellule staminali embrionali umane e cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) capaci di ridurre i livelli di glucosio nel sangue nei topi. Sulla scia di questi risultati numerosi laboratori e biotech hanno iniziato a lavorare con le cellule staminali umane per trovare una cura definitiva contro il diabete. Al momento i prodotti più avanzati si trovano nei laboratori di biotech statunitensi: Semma Therapeutics e Sigilon Therapeutics, con sede a Cambridge, impegnate nello sviluppo di cellule beta da iPSC e ViaCyte di San Diego, che lavora invece sulle hESC.
Uno dei problemi ancora da risolvere è capire come proteggere anche queste nuove cellule beta dall’attacco del sistema immunitario. La stessa reazione autoimmune che ha eliminato le cellule native dell’organismo, tenderebbe infatti a distruggere anche le derivate dalle cellule staminali. La strategia attualmente più usata, è quella di trapiantare le cellule precursori delle beta, incapsulate in strutture che le proteggono dall’attacco del sistema immunitario. Diversi gruppi di ricerca e aziende farmaceutiche sono impegnati nello sviluppo di sistemi simili, che permettano alle cellule di interagire con l’esterno (devono essere in grado di assorbire glucosio e nutrienti e rilasciare insulina) proteggendole al stesso tempo. Le strategie principali sono due: la microincapsulazione, in cui le cellule sono immobilizzate, individualmente o come piccoli gruppi, in minuscole gocce di gel biocompatibile; e la macroincapsulazione, in cui un numero maggiore di cellule viene inserito in un dispositivo molto più grande e impiantabile.
Le nuove strategie in via di sviluppo
Semma sta sviluppando metodi di macroincapsulazione, con un dispositivo molto sottile, delle dimensioni di una moneta, per cui la società prevede di avviare una sperimentazione clinica all’inizio del 2021. Mentre Sigilon sta lavorando a tecnologie di microincapsulazione. Lanciata nel 2016 in seguito a ricerche portate avanti dal Massachusetts institute of technology (MIT), la società ha creato sfere a base di gel da 1,5 millimetri che possono contenere tra le 5000 e le 30000 cellule. L'esterno di queste sfere è modificato chimicamente per fornire l'immunoprotezione, mentre l’interno è pieno di un gel che crea una specie di rete a matrice dove risiedono le cellule. La biotech ha condotto risultati preclinici promettenti su modelli animali, ma per ora non ha ancora divulgato una data per un possibile trial clinico.
L’approccio più avanzato al momento è quello sviluppato da ViaCyte, basato sulla macroincapsulazione. Nel 2014 la biotech ha avviato lo studio clinico PEC-Encap per verificare sicurezza ed efficacia del proprio prodotto (delle dimensioni di un cerotto, il dispositivo viene impiantato sotto la pelle, dove il corpo forma i vasi sanguigni attorno ad esso). Nel 2018, la company ne ha confermato la sicurezza e la tollerabilità nei pazienti, e una buona protezione delle cellule dall’attacco del sistema immunitario. Tuttavia, è stata rilevata una risposta aggressiva nei confronti del dispositivo, che non ha permesso alla maggior parte delle cellule di innestarsi efficacemente. Motivo per cui sono stati esaminati nuovi materiali per sostituire la membrana. Una in particolare è stata selezionata per lo sviluppo in un nuovo dispositivo modificato, che verrà testato in un trial clinico i cui risultati dovrebbero arrivare nei prossimi 6-12 mesi.
Sempre ViaCyte nel 2017 ha iniziato un altro studio di Fase I/II, condotto negli Stati Uniti e in Canada, per i pazienti ad alto rischio che sono in lista di attesa per i trapianti di donatori. In questo studio le stesse cellule precursori sono trapiantate in un dispositivo che permette la diretta vascolarizzazione delle cellule. In questo caso, però, la capsula essendo permeabile consente l'interazione tra le cellule pancreatiche e il sistema vascolare del paziente. Il che porta a una migliore funzionalità, ma anche a una reazione immunitaria di rigetto. Motivo per cui questo tipo di approccio andrebbe somministrato con un farmaco immunosoppressore, o in combinazione con una diversa strategia. Da qui l’idea di modificare ex vivo le cellule staminali, con la tecnica di editing genomico CRISPR, in modo da non essere attaccate dal sistema immunitario ospite.
Insomma, un campo di ricerca in pieno fervore per una patologia cronica che, secondo le ultime stime, affligge più di 400 milioni di persone nel mondo e che sta diventando un’emergenza sanitaria mondiale.