L’opportunità di ricorrere a modelli 3D apre le porte a studi clinici mai condotti in passato, ma occorre prestare attenzione a non superare i confini della bioetica
Se quello tra la ricerca e le malattie neurodegenerative e psichiatriche fosse un match di boxe, fino a qualche anno fa il vantaggio poteva sembrare tutto a favore di queste terribili patologie. Ma il progressivo affinamento delle tecniche di imaging ha portato, negli anni, a un sovvertimento delle parti e adesso, grazie agli organoidi, la ricerca ha un duro colpo a queste patologie. L’ascesa dei modelli cellulari tridimensionali in scala ridotta si accompagna non solo all’evoluzione delle tecniche di manipolazione delle cellule staminali ma anche all’introduzione di tecnologie di ultima generazione come la stampa 3D.
Una saggia combinazione di ognuno di questi elementi ha portato gli scienziati a realizzare modelli cellulari unici quali il primo mini-cuore, il primo sistema integrato di fegato, pancreas e dotti biliari, fino al primo cervello in coltura. La conoscenza e la capacità di usare le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) hanno permesso ai ricercatori di guardare all’interno di organi vitali e di studiarli nel tempo. La risonanza magnetica nucleare è una straordinaria tecnica per osservare in maniera molto precisa e a diversi livelli di profondità un organo, ma con gli organoidi è possibile risalire al momento in cui certi percorsi molecolari si attivano generando una patologia. Con gli organoidi si può realizzare una sorta di viaggio nel tempo, a partire dal “momento zero”, quello in cui le cellule iniziano ad assemblarsi e poi lentamente a differenziarsi, fino alla costituzione di un organo. In tutto questo viaggio diventa possibile vedere dove si generino malfunzionamenti che possono tradursi in una patologia. Quello che i mini-organi permettono di fare non può essere replicato dai modelli animali (ovviamente più lontani dall’uomo sulla scala filogenetica) o da organi donati alla scienza.
ORGANOIDI CONTRO LE PATOLOGIE CEREBRALI
A rilanciare il guanto della sfida alle malattie neurodegenerative e psichiatriche è una ricercatrice italiana, Paola Arlotta, Prof.ssa allo Stanley Center for Psychiatric Research dell’Università di Harvard, esperta in medicina rigenerativa e cellule staminali, che ha pubblicato sulla rivista Nature un lavoro sull’impiego di organoidi per lo studio delle patologie cerebrali. Un probabile punto di svolta che la stessa studiosa ha presentato alle “Levi Montalcini Lectures” promosse dalla Fondazione Ebri dell’Accademia dei Lincei in occasione del Montalcini Day 2019, celebrato il 28 ottobre a Roma e dedicato proprio alle neuroscienziate. Alzheimer e Parkinson sono le due principali malattie a cui si pensa quando si parla di malattie del cervello ma esistono condizioni cliniche come l’autismo e la schizofrenia i cui meccanismi di innesco non sono stati del tutto chiariti. Gli organoidi potrebbero fornire risposte preziose in proposito.
“Fondamentalmente non siamo mai riusciti a studiare il cervello umano per una serie di motivi: è diverso da quello dei topi che normalmente si usano nella ricerca e poi si sviluppa in utero e quindi non vi avremmo mai accesso” - ha spiegato la prof.ssa Arlotta in un’intervista ad Adnkronos Salute - “Oggi poi sappiamo che malattie come quelle psichiatriche hanno una genetica molto complessa non di un solo gene, di una mutazione o di un cambio nel DNA. È un processo legato alla poligenetica, ovvero, quando tante posizioni nel genoma umano contribuiscono alla patologia. Quindi malattie di questo tipo possono essere studiate solo su un modello umano: serve il genoma della persona che ha la malattia. Noi abbiamo pensato ad un certo punto che se fossimo stati in grado di prendere le cellule staminali e di indurle a produrre tessuto del cervello forse avremmo potuto cominciare a studiare queste malattie in un contesto umano”. L’idea si è rivelata vincente e ha condotto il team di ricerca alla produzione dei primi organoidi nei quali è stato studiato attentamente lo sviluppo della corteccia in tutta la sua complessità. Un risultato straordinario se solo si considera quanto in natura sia precoce nel processo di embriogenesi la formazione del cervello. A ciò si aggiunga che ogni mini-cervello è “viziato” da un certo tasso di variabilità individuale: praticamente ogni organoide è unico nel suo genere perché le cellule che lo compongono vengono spinte ad organizzarsi in maniera variabile, in certi casi auto-organizzandosi, in altri gli scienziati lavorano allo sviluppo di alcune parti che poi vengono poste a contatto con altre in un procedimento di assemblaggio facile sulla carta e difficilissimo nella realtà. In tutto questo, mantenere l’unicità delle connessioni e l’uniformità cellulare è un’impresa titanica. Tuttavia gli scienziati guidati dalla prof.ssa Arlotta sono stati capaci di riprodurre delle copie in miniature del cervello originale, mantenendo intatta la ricchezza cellulare e delle connessioni che si trovano nella corteccia. Scoprendo che vi è una certa uniformità negli organoidi prodotti da linee cellulari diverse e che la complessità del sistema nervoso può essere rievocata anche in fasi successive della formazione dell’embrione.
MINI-CERVELLI SENZIENTI?
I mini-cervelli assumono dunque il ruolo di modelli cellulari ad elevata precisione e si configurano come delle lenti d’ingrandimento insostituibili per ricreare il Big bang neuronale da cui si sviluppano tutte le connessioni nervose di un cervello. Aprendo così delle porte sulla genesi delle patologie riguardanti la nostra centrale di pensiero che fino ad ora erano rimaste sbarrate. Ma c’è anche chi si interroga sui limiti che la creazione di mini-cervelli può avere. Perché se esiste ancora qualcuno che identifica nel cuore la sede dei sentimenti, l’inequivocabile casa del pensiero e delle emozioni rimane il cervello. La nostra unicità trova ragione d’essere nelle sinapsi che generano i pensieri, grazie a cui ci distinguiamo dal resto del mondo animale, per cui sorge spontaneo domandarsi se i mini-cervelli che vengono creati in certi laboratori di tutto il mondo abbiano o meno coscienza.
Quello degli organoidi è, dunque, uno scacchiere denso di protagonisti che, oltre agli alfieri della medicina rigenerativa, e ai cavalli di battaglia delle cellule staminali e delle nuove tecnologie di stampa 3D, non può non considerare le torri della bioetica. È, infatti, necessario soffermarsi sulle regole e i principi che guidano la ricerca come hanno fatto Elan Ohayon e Ann Lam, neuroscienziati del Green Neuroscience Laboratory, che hanno messo per iscritto nella loro “Roadmap to a New Neuroscience” i principi etici fondamentali per la ricerca che potrebbero dover essere applicati anche agli organoidi cerebrali. Il dibattito sulla possibilità che gli organoidi stiano raggiungendo un grado di complessità tale da avere pensieri e sensazioni è apertissimo, e se qualcuno ancora dubita che questo confine sia stato varcato è fondamentale sapere che qualcun’altro sta vagliando la possibilità opposta. In modo tale da guidare sempre la ricerca nella giusta direzione, senza pericolose deviazioni e sempre tenendo presente le potenzialità di ciò che si studia e la gravità di quello che si combatte.