Cellule staminali

I ricercatori hanno scoperto come indurre le cellule staminali a formare gli aggregati sferici precursori degli organoidi veri e propri, riducendo tempi e costi di produzione

Sono passati più di dieci anni dal primo intestino in miniatura, prodotto in laboratorio a partire dalle cellule staminali che ricoprono la parete intestinale. Poco più che un ammasso di cellule, ma con un lume interno e strutture simili ai villi e alle cripte intestinali. Era solo l’inizio del nuovo entusiasmante percorso di ricerca sugli organoidi – modelli cellulari che riproducono nelle tre dimensioni un organo umano in miniatura, per testare la risposta a un farmaco o l’origine di una malattia. I ricercatori del Childern’s Hospital Medical Center di Cincinnati (Stati Uniti) hanno messo a punto un metodo per superare le sfide che ancora ostacolano la produzione su larga scala degli organoidi. L’articolo è stato pubblicato a giugno su Stem Cell Reports.

Di organoidi ormai ne esistono di tutti i tipi, che mimano non solo l’intestino ma anche il cervello, la retina, i polmoni o il pancreas. Lo scopo è quello di avvicinarsi il più possibile all’organo reale, per studiarne in vitro la fisiologia, l’origine delle malattie e la risposta ai farmaci. Per preparare i vari tipi di organoidi non esiste una ricetta “universale”, ma sono sempre necessari almeno tre ingredienti: cellule staminali pluripotenti (ovvero in grado di differenziarsi in qualunque altro tipo cellulare), un gel a base di matrice extracellulare (cioè l’impalcatura 3D su cui cresceranno le cellule) e un terreno di coltura particolare (che contiene fattori di crescita e molecole segnale specifiche per ogni organo).

Il metodo per generare gli organoidi intestinali fu pubblicato in un articolo su Nature nel 2011, ed è in uso ancora oggi. Il materiale di partenza sono le cellule adulte del sangue o della pelle, che vengono riprogrammate in laboratorio per tornare indietro allo stadio differenziativo di cellule staminali pluripotenti – per questo vengono chiamate cellule staminali pluripotenti indotte (IPSC). Nel caso degli organoidi intestinali, le IPSC sono indotte a differenziarsi in cellule dell’endoderma – il più interno dei tre foglietti embrionali che si formano poco dopo la fecondazione e che darà origine proprio all’intestino. Prima si forma l’endoderma cosiddetto “definitivo” e poi quello che viene chiamato endoderma dell’intestino medio o MHE (dall’inglese “mid-hindgut endoderm”). Il passo successivo è cruciale: l’MHE forma un monostrato di cellule adese alla superficie di una piastra per colture cellulari. Dopo qualche tempo, dal monostrato si staccano spontaneamente aggregati cellulari di forma sferica che crescono in sospensione nel terreno di coltura. Sono i cosiddetti “sferoidi”, i precursori degli organoidi veri e propri, che vengono prelevati e incorporati in una matrice extracellulare, dove sotto l’influenza di determinate molecole e fattori di crescita completano la differenziazione.

Questo processo però ha una serie di punti critici. A partire dalla fase iniziale, che richiede di generare continuamente nuove IPSC dalle cellule adulte: un processo tecnicamente laborioso, con tempi e costi non trascurabili. Ma il problema più grosso riguarda la formazione degli sferoidi. Nel protocollo tradizionale, questa avviene spontaneamente a partire dal monostrato di MHE, ma con una variabilità intrinseca che rende la produzione di nuovi organoidi un processo mediamente inefficiente e ricco di incognite. I ricercatori del Childern’s Hospital Medical Center di Cincinnati hanno osservato che su 140 esperimenti, solo il 54% produce un numero significativo di sferoidi per passare alla fase successiva. Il 10% ne produce un numero scarso (meno di 50 per piastra) e il 36% addirittura non ne produce affatto. Sono ancora sconosciute le ragioni di questa variabilità, che non dipende né dalla qualità né dallo stato differenziativo dell’MHE e spesso si manifesta persino tra due piastre di uno stesso esperimento.

Il gruppo ha quindi messo a punto un nuovo protocollo che consente di produrre da subito più sferoidi e quindi di aumentare il numero di organoidi maturi, inducendo l’aggregazione degli sferoidi in maniera artificiale. Le cellule del monostrato di MHE sono state staccate e centrifugate all’interno di speciali piastre dal diametro di poche centinaia di micrometri, progettate appositamente per generare aggregati cellulari. Questo semplice passaggio, dopo una notte in coltura con il terreno specifico, permette di avere fino a 10-20 volte più sferoidi rispetto a quelli che si formano spontaneamente e con dimensioni più omogenee (circa 100 micrometri di diametro). Il protocollo funziona anche per organoidi di stomaco e colon.

Il numero è maggiore, ma la qualità? Gli esperimenti hanno dimostrato che gli “sferoidi aggregati” hanno caratteristiche di crescita e differenziazione cellulare del tutto simili a quelle degli sferoidi spontanei. Nella fase successiva di crescita nella matrice extracellulare, inoltre, formano organoidi con le stesse caratteristiche morfologiche e istologiche. I ricercatori hanno anche trapiantato i mini-intestini nei topi da laboratorio, dimostrando che gli organoidi aggregati maturano in vivo allo stesso modo di quelli spontanei. L’articolo riporta anche un’altra novità che potrebbe rivoluzionare la ricerca sugli organoidi. Le cellule del monostrato di MHE possono essere congelate in azoto liquido e scongelate per un nuovo utilizzo senza compromettere in alcun modo il risultato – la procedura richiede solo una piccola modifica nel mezzo di coltura dopo lo scongelamento.

Non sarebbe più necessario, quindi, generare sempre nuove IPSC, ma si potrebbe iniziare dalla fase successiva, risparmiando tempi e costi e generando vere e proprie banche di pre-organoidi congelati. Questo permetterebbe lo scambio di materiale da un laboratorio all’altro, aumentando la riproducibilità dei risultati, ma anche il materiale a disposizione degli scienziati per mettere a punto nuovi protocolli sempre più efficaci.

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