occhio

Realizzato il primo modello di occhio tridimensionale usando cellule prelevate dal paziente. Sarà importante per lo studio delle interazioni con l’ambiente esterno

Quanto è fastidioso quando qualcuno entra in camera nostra la mattina per svegliarci e spalanca gli scuri inondando di luce la stanza? In quel momento vorremmo riaffondare la testa nel cuscino perché il fastidio provocato dalla luce costituisce la prima interazione tra i nostri occhi e l’ambiente circostante. Infatti, prima ancora di vedere ciò che abbiamo intorno - e chi ci ha svegliato - gli occhi registrano lo stimolo luminoso.

Il mini-modello tridimensionale di occhio creato da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania di Philadelphia servirà proprio a studiare questo genere di stimolazioni sulle cellule che formano l’organo della vista. La loro straordinaria ricerca è apparsa sulla rivista Nature Medicine ed è stato riportato su molti quotidiani in tutto il mondo, nei quali si parla di “occhio artificiale”, definizione che a più di qualcuno potrebbe suonare come “occhio bionico”. Niente di più lontano dalla realtà perché l’organo in miniatura - che segue da vicino il polmone e il fegato nati dalla collaborazione tra la Rice, la Duke e la Rowan University e l’Università di Washington - è cieco. Per quale motivo darsi tanto da fare per un occhio che non vede? E, soprattutto, perché un mini-occhio cieco sta suscitando tanto clamore?

Le risposte non si fanno attendere. Gli scienziati guidati dal prof. Dongeun Huh hanno pensato a una speciale architettura intorno alla quale si sono organizzate le cellule che, normalmente, formano l’occhio. Ciò è stato reso possibile grazie alle estese conoscenze di fisiologia, istologia e anatomia oculare, a partire dalle quali essi hanno realizzato un processo di ingegneria decostruttiva che, dal prodotto finito, è tornato al singolo pezzo. L’obiettivo è stato quello di concentrarsi sulla superficie oculare ed utilizzarla come modello, combinando le cellule della cornea e della congiuntiva per farle crescere e studiare le loro risposte agli stimoli esterni.

Per raggiungere l’obiettivo era necessario un modello colturale capace di superare quello offerto dalla piastra Petri (la tipica piastra da laboratorio per crescere e moltiplicare le cellule) il cui principale limite è l’assenza di tridimensionalità. In questo campo gli organoidi possono definirsi il futuro della biologia cellulare - e un giorno anche della trapiantologia - poiché consentono di riprodurre fedelmente in scala ridotta organi e tessuti, favorendo uno studio approfondito relativamente all’irrorazione sanguigna, all’apporto di ossigeno e nutrienti e allo smaltimento di materiale di scarto. Oltre a gettare le basi per una valutazione della risposta cellulare gli stimoli fisici, come la gravità o, appunto, la luce.

Il balzo di qualità consentito dagli organoidi non sarebbe però stato possibile senza la tecnologia della stampa in 3D tramite cui i ricercatori hanno imparato a produrre i mini-organi, sfruttando le cellule dei pazienti come “inchiostro”. Nel caso specifico del mini-occhio, le moderne tecniche di stampa 3D sono state fondamentali per creare i vari strati di cornea (membrana che ricopre la parte anteriore dell’occhio e che rappresenta la prima "lente" che la luce incontra) e congiuntiva (sottile mucosa che ricopre la parte anteriore del bulbo oculare e che ha la funzione di proteggere l’occhio da corpi estranei e infezioni) che sono stati poi deposti su una specie di struttura a cupola. Tale dispositivo a forma di cupola, costituito da più strati cellulari, è stato collegato a una camera di perfusione sottostante, a un canale lacrimale e a una palpebra che poteva scorrere avanti e indietro sull’impalcatura. A questo punto, i cheratociti (le cellule dell’epidermide) umani sono stati inclusi in una specie di idrogel e deposti sulla palpebra. In tal modo è nato il modello tridimensionale di un occhio - o, più precisamente, della sua superficie che fa da interfaccia con la realtà - allo scopo di studiare le risposte delle cellule quando interagiscono con vari e diversi stimoli chimici o fisici. Il modello statunitense consente anche di imitare il battito delle ciglia ed è perfettamente integrato con una piattaforma controllata digitalmente cosicché ogni impulso possa essere accuratamente registrato.

L’occhio in 3D sarà fondamentale per lo studio a livello cellulare e tissutale delle patologie della cornea o della congiuntiva e per guidare la ricerca su condizioni come la sindrome dell’occhio secco che riduce drasticamente la lacrimazione. In particolare, proprio i primi test eseguiti su questo modello hanno evidenziato il valore della lubricina quale lubrificante oculare, confermandone anche gli effetti benefici nei confronti della superficie oculare infiammata. In tal senso, anche in futuri protocolli di ricerca l’occhio in 3D avrà un ruolo di primo piano quale piattaforma di screening per una valutazione di efficacia dei nuovi farmaci sperimentali, riducendo la necessità di ricorrere ai modelli animali. Ovviamente c’è ancora molto lavoro da fare soprattutto per migliorare la vascolarizzazione dell’organo tridimensionale ma questo occhio che ammicca seducente ai suoi creatori indica che la strada imboccata è promettente.

E a confermare lo straordinario momento d’oro degli organoidi è lo studio condotto dal prof. Andrew Lee della Carnegie Mellon University di Pittsburgh che, insieme ai suoi colleghi e ricorrendo alle più sofisticate tecniche di stampa 3D, ha creato un mini-cuore. La ricerca di Lee è stata pubblicata sulle pagine della rivista Science e descrive una tecnica (FRESH) nella quale si sfrutta il collagene come bioinchiostro. Un risultato straordinario su cui avevano già lavorato scienziati israeliani e che testimonia l’interesse per questa nuova tecnologia grazie a cui si ottengono modelli cellulari altamente accurati. E così, dopo una strizzatina d’occhio i ricercatori hanno ricreato anche il battito di un cuore, dimostrando una volta di più quanto possa essere innovativa ed emozionante la ricerca biomedica.

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