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tumore seno

Uno studio italiano ha indagato le capacità delle cellule del carcinoma intraduttale mammario di mutare stato, da solido a liquido, scoprendo che ciò le rende più sensibili all’immunoterapia

Fare luce sui meccanismi che regolano la crescita e la proliferazione dei tumori è una delle più ardue sfide che la medicina si sia mai posta, poiché le varianti in gioco sono così tante da mettere lo scienziato di fronte a un labirinto (quasi) impenetrabile. Tutto ciò diventa ancora più vero quando si parla di metastasi a distanza in quanto lo spostamento delle cellule del tumore da una sede primitiva a un sito lontano prevede l’attivazione di una complessa ragnatela di reazioni molecolari. Ma, come negli scacchi, una giusta mossa può avere implicazioni notevoli: lo dimostra lo studio firmato dai ricercatori dell’IFOM e dell’Università degli Studi di Milano e recentemente pubblicato su Nature Materials. Gli scienziati si sono concentrati sul trasformismo materico del tumore, comprendendo come esso possa agevolare l’azione dell’immunoterapia.

Gli esiti di questa nuova ricerca partono dal presupposto fondamentale che le proprietà meccaniche delle cellule abbiano la capacità di regolarne la funzionalità e il comportamento, non soltanto in condizioni fisiologiche ma anche durante il processo di cancerogenesi. Infatti, spesso riferendosi ai tumori non ematologici si utilizza il termine “massa” e l’aggettivo “solido”, poiché in effetti è così che essi si presentano. Tuttavia, per poter migrare e produrre metastasi le cellule di un tumore solido devono “accettare un certo grado di cambiamento”, venendo a compromessi con la loro natura ed evolvendosi. La scoperta che, per potersi spostare verso tessuti diversi da quelli di origine, alcune cellule del tumore possano sottostare a una serie di cambiamenti che le spinge a passare dallo stato solido a quelli liquido ha indotto molti studiosi ad approfondire tale processo.

In particolare, i ricercatori dell’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare (IFOM) e dell’Università degli Studi di Milano hanno messo insieme competenze di biologia molecolare, istopatologia e fisica dei materiali e si sono concentrati sul carcinoma intraduttale mammario (Ductal adenoCarcinoma In Situ, DCIS). Essi hanno ipotizzato che la trasformazione di fase osservata possa costituire una risposta alle condizioni meccaniche caratterizzanti il tumore: ciò favorisce la sua disseminazione verso altre parti dell’organismo ma, allo stesso tempo, lo rende più sensibile agli attacchi dell’immunoterapia capaci di arrestare la sua corsa metastatica. In pratica, in quello stesso meccanismo evolutivo che consente al tumore di crescere e colonizzare nuovi tessuti si nasconde un punto debole che gli scienziati hanno individuato e che potrebbe conferire un vantaggio alla terapia.

Il carcinoma intraduttale mammario è una lesione tumorale che ha la potenzialità di evolvere verso forme altamente invasive, questo tipo di tumore tende a formarsi all’interno dei confini del dotto della ghiandola mammaria e tale condizioni fisica di compressione ne previene l’espansione. Infatti, la terapia standard per il DCIS consiste nel ricorso alla mastectomia che è in grado di curare la maggior parte delle pazienti. Ma in circa il 30% delle persone affette il tumore progredisce dando luogo a metastasi a distanza e, purtroppo, non esistono strumenti per capire se una paziente rientri in questa frazione di casi o in quella di coloro in cui la terapia ha sortito il giusto effetto. Pertanto, tutte le pazienti sono sottoposte in maniera indistinta alla stessa terapia. “I medici non hanno a disposizione una chiave di lettura per capire come orientare le loro strategie terapeutiche in modo mirato o, più semplicemente, per risparmiare trattamenti non necessari”, spiega Giorgio Scita, a capo del laboratorio ‘Meccanismi di ricerca delle cellule tumorali’ dell’IFOM e Professore Ordinario di Patologia Generale presso l’Università degli Studi di Milano. “La sfida che ci siamo posti come gruppo di ricerca è stata di indagare le caratteristiche fisiche alla base delle due categorie di tumore, per cercare di identificare criteri con cui differenziare i trattamenti e ridurre al minimo indispensabile le terapie applicate”.

Da diversi anni i ricercatori dell’IFOM e della Statale di Milano stanno analizzando le caratteristiche del DCIS e hanno potuto constatare il ruolo giocato dalla proteina RAB5A, un ingranaggio chiave nel processo di formazione degli endosomi (vescicole cellulari responsabili dell’endocitosi, meccanismo che permette l’entrata nella cellula di macromolecole attraverso la membrana cellulare), che risulta espressa in maniera abbondante nei tumori più aggressivi. Questa proteina favorisce l’internalizzazione di recettori - fra cui EGFR - attivando una serie di percorsi che inducono la fluidificazione e la capacità di spostamento delle cellule. La catena di meccanismi così attivati porta anche alla rottura dei nuclei delle cellule, con fuoriuscita del DNA nel citosol. Ciò chiama in causa la via cGAS-STING, che ha il compito di rilevare il DNA citosolico e innescare uno stato infiammatorio, che aumenta l’aggressività e l’invasività del tumore, nonché la sua resistenza ai chemioterapici.

Per osservare tali processi è stato necessario adottare approcci metodologici ad elevato grado di innovazione, in un percorso che combina la fisica e la biologia. “In laboratorio abbiamo creato degli ‘avatar’ di tumori mammari e abbiamo utilizzato sofisticate tecniche di meccanobiologia e di imaging ad altissima risoluzione”, illustrano Emanuela Frittoli e Andrea Palamidessi, autori dell’articolo. “Abbiamo, quindi, confrontato le espressioni geniche del tumore liquido e di quello solido nella transizione solido-liquido indotta da RAB5A. Abbiamo così osservato che, durante questo passaggio di stato, la cellula tumorale, oltre ad acquisire fluidità e capacità invasiva, diventa sorprendentemente in grado di attivare il sistema immunitario innato, caratteristica che le consente di resistere alla chemioterapia. Pertanto, a un cambio di stato corrispondono sostanziali modifiche nelle proprietà del tumore stesso. Da quanto abbiamo osservato, questo avviene perché nella transizione di stato il tessuto tumorale è sottoposto a forti sollecitazioni meccaniche, dilatandosi e contraendosi, e scatenando di conseguenza una risposta protettiva da parte della cellula stessa”.

“L’esposizione del tumore a sollecitazione meccaniche ripetute comporta una vera e propria trasformazione del suo comportamento all’interno dell’organismo, che porta quest’ultimo ad attivare meccanismi di reazione analoghi a quelli adottati dai tessuti del sistema immunitario esposti ad infezioni virali”, precisa Scita. “Dunque, questa trasformazione, se da un lato un lato conferisce al tumore resistenza a farmaci chemioterapici, potrebbe essere altresì sfruttata come un’arma a doppio taglio per combattere il tumore stesso. In altre parole, stiamo cercando di fare leva sulla capacità di fluidificazione del tumore per trasformare tale capacità da veicolo di aggressività tumorale ad arma per attivare il sistema immunitario. Il tumore passerebbe così da essere immunologicamente ‘freddo’, cioè non visibile al sistema immunitario, a immunologicamente ‘caldo’, quindi efficacemente trattabile con i moderni approcci d’immunoterapia”.

Tali risultati sono stati ottenuti in “avatar”, cioè in modelli di tumori mammari ma la prossima sfida che aspetta i ricercatori milanesi è di confermare tali dati sui campioni dei pazienti: se ciò avverrà anche in studi clinici, il 70% delle pazienti in cui RAB5A non dovrebbe essere presente potrebbe andare incontro a regressione senza bisogno di un piano terapeutico, mentre il 30% in cui questa proteina dovrebbe essere espressa potrebbe essere trattata efficacemente con immunoterapia. Una conclusione che conferma quanto sia importante creare le giuste interazioni con personale di ambiti scientifici diversi, al fine di affrontare argomenti complicati da ogni prospettiva possibile e giungere a traguardi che fungano da punto di partenza per la costruzione di nuovi percorsi di cura.

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