Il trattamento ambulatoriale è considerato una soluzione innovativa per incrementare l’accessibilità e ridurre i costi delle terapie avanzate
Uno degli obiettivi del progetto “Cell Therapy Open Source” (CTOS), avviato nel 2020 grazie alla collaborazione tra l’azienda Gilead Sciences e Osservatorio Terapie Avanzate, era quello di individuare le principali sfide da affrontare per garantire ai pazienti l’accesso alle CAR-T. Oggi, in Italia sono cinque le terapie a base di cellule CAR-T approvate e rese disponibili tramite il Servizio Sanitario a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno: mieloma multiplo, linfoma follicolare e del mediastino, leucemia linfoblastica acuta e linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) sono le malattie contro cui agiscono questi trattamenti che stanno regalando speranze a un numero sempre crescente di persone. Ma si tratta di terapie che richiedono percorsi di erogazione dedicati. E ciò ha risvolti negativi sull’accessibilità perché non tutti i centri ospedalieri possono sostenerne la complessità.
Tra gli spunti di riflessione riportati nel secondo volume del progetto CTOS uno era relativo alla necessità di disegnare percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali (PDTA) attraverso cui potenziare la rete organizzativa per erogare terapie come le CAR-T; ciò prevede una valutazione dei centri accreditati per somministrarle e valutarne successivamente l’effetto sull’organismo. Attualmente, un cospicuo numero di realtà ospedaliere (oltre 40) si è accreditata, o si sta accreditando, per somministrare i super-linfociti T ai pazienti, mettendo in risalto il bisogno di creare delle reti di collaborazione efficienti. Pena la dispersione di risorse e l’abbassamento della qualità di vita di persone affette da malattie in stadio avanzato, resistenti a precedenti trattamenti, che si vedono costrette a migrare da una struttura all’altra, anche al di fuori della loro Regione di residenza.
In tal senso, dagli Stati Unti giunge un’interessante valutazione della possibilità di erogare le terapie CAR-T in regime ambulatoriale, migliorando così l’accesso alla terapia e contribuendo a ridurne i costi. Sulla rivista Blood Advances sono stati, infatti, pubblicati lo scorso settembre i primi risultati dello studio clinico di Fase II OUTREACH, che ha esaminato l’impiego in un contesto comunitario di lisocabtagene maraleucel (liso-cel), una CAR-T approvata negli Stati Uniti, in Europa e in Italia per il trattamento di individui con linfoma primitivo del mediastino a grandi cellule B, linfoma follicolare e DLBCL recidivante o refrattario alle terapie di prima linea. In particolare, l’obiettivo dello studio era distinguere tra monitoraggio ambulatoriale e ricovero ospedaliero dei pazienti. Non è un caso che questo genere di sperimentazione sia stato condotto negli Stati Uniti, un Paese con un sistema sanitario totalmente differente da quella italiana ed europea per cui - secondo le parole dell’autrice dello studio, la dottoressa Yuliya Linhares del Miami Cancer Institute - “il trasferimento dei pazienti a una nuova struttura sanitaria può causare problemi nell’ottenere l’approvazione dell’assicurazione, nell’organizzare gli appuntamenti e nel garantire la continuità delle cure”.
L’obiettivo di OUTREACH era di individuare una modalità più agevole con cui espandere l’accesso alle CAR-T nei centri comunitari e valutare la possibilità di monitorare i pazienti in regime ambulatoriale. Infatti, coloro che si sottopongono a questi trattamenti devono continuare a essere seguiti e valutati - attraverso test su sangue e esami strumentali - per molto tempo, allo scopo di comprendere il reale livello di efficacia e sicurezza della terapia. Nel primo volume della serie CTOS sono descritti i potenziali eventi avversi del trattamento, tra cui la sindrome da rilascio delle citochine e la neurotossicità. Perciò gli obiettivi di OUTREACH riguardavano in prima battuta la sicurezza e la fattibilità del trattamento in ambienti extra-ospedalieri, mentre la valutazione dell’efficacia è rimasta un obiettivo secondario.
Sono stati inclusi 82 pazienti adulti affetti da linfoma diffuso a grandi cellule B recidivante o refrattario (R/R) ad almeno due precedenti linee di trattamento, a cui i medici hanno somministrato liso-cel: il ridotto tasso di insorgenza di effetti collaterali gravi è stato determinante per la scelta della terapia. Circa il 70% dei pazienti arruolati ha ricevuto il trattamento in regime ambulatoriale - nel rigoroso rispetto di requisiti di sicurezza necessari per l’esecuzione della procedura - e di questi un quarto non ha poi avuto bisogno di essere ospedalizzato. Inoltre, la durata mediana della degenza ospedaliera di coloro che hanno ricevuto liso-cel ambulatorialmente è stata di 6 giorni, a differenza dei 15 giorni per quelli che hanno ricevuto le cellule CAR T in regime di ricovero. Il profilo di sicurezza di liso-cel si è confermato favorevole: non sono stati osservati casi di sindrome da rilascio di citochine di grado 3 o superiore, mentre gli eventi neurologici di grado elevato sono stati riscontrati nel 12% dei pazienti ambulatoriali e nel 4% degli ospedalizzati. Le infezioni e la citopenia prolungata si sono verificate rispettivamente nel 12% e nel 33% degli ambulatoriali e nell’8% e 32% degli ospedalizzati. In termini di efficacia, liso-cel ha dimostrato un tasso di risposta obiettiva dell’80% e un tasso di risposta completa del 54%, con una durata mediana della risposta di 14,75 mesi.
I dati pubblicati sono perfettamente in linea con gli studi precedenti e sembrano supportare l’utilizzo ambulatoriale delle CAR-T, almeno per un preciso gruppo di pazienti. Ma basteranno questi numeri a cambiare la situazione negli Stati Uniti o in Italia? Nel nostro Paese il Servizio Sanitario ha una evidente struttura regionale che, specie per quel che riguarda le malattie e i tumori rari, può complicare la vita ai pazienti: da più parti si ravvisa la necessità di adottare linee guida comuni, lavorando alla creazione di programmi specialistici di erogazione delle CAR-T. È ormai chiaro che la gestione di queste terapie avanzate passa attraverso il coordinamento di medici specialisti in diverse discipline (oncologi, ematologi, anestesisti, chirurghi), infermieri e personale di sala. Un ruolo centrale è, inoltre, affidato al “Case Manager” una figura dotata di competenze che spaziano dall’area sanitaria e assistenziale sino a quella amministrativa. Servono procedure standard ben delineate e occorre potenziare la formazione del personale coinvolto per garantire che qualsiasi complicazione venga individuata e affrontata rapidamente.
Una più solida capacità di far fronte alle complicanze del trattamento è alla base di studi come quello condotto negli Stati Uniti, ma per poter pensare a una gestione ambulatoriale delle CAR-T ancora non basta: serve anche una capillare valutazione dei criteri necessari a determinare quali pazienti siano più adatti a un trattamento ambulatoriale rispetto a uno ospedaliero. C’è molto lavoro da fare ma i progressi nel settore produttivo e l’esperienza maturata nella gestione degli eventi avversi saranno cruciali per far in modo che le CAR-T diventino accessibili a un sempre maggior numero di persone. Un tema urgente visto che queste terapie potrebbero, in un futuro prossimo, entrare nella pratica clinica anche per malattie ad ampia diffusione, come quelle autoimmuni per cui sono attualmente in fase di sperimentazione.