Glioblastoma

La terapia CAR-T affronta il glioblastoma, uno dei più aggressivi tumori solidi del cervello: il male che ha ucciso di recente Nadia Toffa e, prima di lei, un altro conduttore televisivo, Fabrizio Frizzi. È stata messa a punto negli Stati Uniti una strategia che potrebbe rivelarsi utile anche contro altri tipi di neoplasie

In questo momento storico della medicina le terapie CAR-T sono un l’equivalente di Cristiano Ronaldo per il calcio: una stella polare capace di trascinare il mondo della ricerca verso risultati insperati. Il fresco accordo tra AIFA e Novartis per la commercializzazione di tisagenlecleucel non ha fatto che confermare la fiducia nei confronti di questa nuova terapia innovativa che ha prodotto risultati tangibili contro forme di leucemia e linfoma resistenti alla terapia o recidivanti.

Adesso la sfida è rivolta ai tumori solidi e non la si può definire una partita semplice perché neoplasie di questo tipo sono, per loro stessa natura, mutevoli e difficili da raggiungere da parte dei farmaci stessi. Perciò merita considerazione il lavoro che un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital di Boston ha da poco pubblicato sulle pagine della rivista scientifica Nature Biotechnology  e in cui è spiegato il protocollo messo a punto per rivolgere la terapia immunitaria contro tumori solidi quali il glioblastoma.

Che l’immunoterapia stia progredendo nella lotta ai tumori lo dimostrano le ricerche svolte sul neuroblastoma ma il glioblastoma è la neoplasia cerebrale più aggressiva e più frequente, con un’incidenza media di 5-8 casi ogni 100.000 nati. Più della metà di tutti i gliomi diagnosticati è rappresentata da questo tumore del cervello il cui attuale standard terapeutico prevede il ricorso alla chirurgia, quando il tumore è accessibile, oppure alla radioterapia in combinazione con chemioterapia. Proprio la mancanza di molecole che possano attraversare la barriera emato-encefalica, per raggiungere e colpire le cellule tumorali, ha messo in moto gli studiosi di Boston. La conoscenza dei meccanismi con cui il glioblastoma si sviluppa ha fatto loro da guida su questo percorso per mettere a punto un possibile nuovo protocollo di terapia.

“In precedenza avevamo già prodotto delle cellule CAR-T da usare contro il glioblastoma ma una delle sfide posteci da questo tumore deriva dal fatto che non tutte le cellule tumorali esprimono un antigene che la cellula T può prendere a bersaglio” - afferma la prof.ssa Marcela V. Maus, direttore del programma di Immunoterapia Cellulare presso il Massachusetts General Hospital Cancer Center. Oltre al superamento della barriera emato-encefalica, una difficoltà nell’uso dell’immunoterapia contro i tumori solidi del cervello è proprio che, a differenza delle leucemie, essi espongono sulla loro superficie un alto numero di antigeni, tra loro estremamente diversi, e individuare quello che permette alla terapia con le CAR-T di produrre gli effetti migliori non è affatto semplice.

Perciò i ricercatori hanno agito d’astuzia elaborando un sistema altamente preciso e dotato di un obiettivo speciale: la variante III del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFRvIII), una proteina della famiglia EGFR presente sulla superficie di molti, ma non di tutti i glioblastomi. Già questo sarebbe sufficiente a rendere diverse tra loro le neoplasie e, pertanto, non certo il successo della terapia. L’espressione di EGFRvIII è legata a processi di proliferazione cellulare, formazione di nuovi vasi e invasione tissutale e il fatto che essa si riscontri solo nel tessuto tumorale ne ha fatto un ottimo candidato per protocolli di terapia mirata. Ma una terapia a CAR-T diretta solo contro EGFRvIII rischia di essere incompleta e inefficace perché esistono glioblastomi in cui a essere esposta è EGFR, una proteina diffusa in molte altre cellule del corpo, e prenderla a bersaglio rischiava di innescare una sequenza di effetti collaterali anche più pericolosi della malattia stessa. Serviva pertanto uno strumento specifico.

Ecco dunque che il team guidato dalla prof.ssa Maus ha sviluppato un costrutto speciale (un attivatore bispecifico di cellule T rinominato BiTE, che suona come “bite” la parola inglese che sta per “morso”) che può essere veicolato nel liquido cerebrospinale, alla base del cervello. In termini pratici il BiTE è una sorta di sistema di guida che indirizza le cellule T verso uno specifico bersaglio, risolvendo il problema dell’eterogeneità del glioblastoma esprimente sia EGFR che EGFRVIII. Inoltre, somministrate localmente queste cellule sono troppo piccole per oltrepassare la barriera emato-encefalica perciò il costrutto CAR-T che produce il BiTE rimane confinato nel cervello e non rischia di danneggiare altri organi. Ma, soprattutto, affonda i denti proprio nel punto di forza del glioblastoma, la sua diversità sul piano molecolare.

Questa specie di terapia a base di CAR-T “a doppio colpo” è stata testata su modelli murini di glioblastoma umano e i ricercatori americani hanno scoperto che le CAR-T secernenti il BiTE sono in grado di eliminare circa l’80% dei tumori. È un risultato incoraggiante che sta aprendo la strada ad ulteriori ricerche e sperimentazioni cliniche - è stato avviato uno studio clinico di Fase I che vede la collaborazione delle Università della California e della Pennsylvania - che potrebbe favorire lo sviluppo di un trattamento anche per altri tumori solidi dalla prognosi spesso infausta.

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