car-t, neuroblastoma tumore solido

Una bambina affetta da neuroblastoma, resistente alle terapie standard, trattata con cellule CAR-T nel 2006 è, oggi, una donna di 23 anni libera dalla malattia

Il suo nome non è stato diffuso ma lei è già la nuova icona delle terapie a base di cellule CAR-T, come lo è Emily Whitehead (abbiamo raccontato la sua storia nel podcast “Reshape – un viaggio nella medicina del futuro") o come lo è stato, prima di lei, Linda Taylor per i linfociti infiltranti il tumore che Steven Rosenberg sperimentò tra gli anni Settanta e Ottanta iniziando a disegnare il futuro dei trattamenti immunoterapici. Infatti, la bambina di 4 anni affetta da un neuroblastoma particolarmente resistente alle terapie convenzionali e trattata con le CAR-T in uno studio clinico di Fase I è oggi una donna di 23 anni guarita dalla malattia. Il suo caso di remissione - la più duratura dopo un trattamento di questo genere - è stato riportato pochi giorni fa sulla rivista Nature Medicine.

All’età di quattro anni, Jane - un nome di fantasia per proteggere la privacy della protagonista di questa storia - ha ricevuto una diagnosi di neuroblastoma, uno dei più aggressivi tumori solidi, che si manifesta con maggiore incidenza nei bambini (la quasi totalità dei casi di tumore maligno del sistema nervoso simpatico nella fascia d’età tra 0 e 14 anni è di questo tipo). Purtroppo, nel caso di Jane le terapie standard non avevano dato risultati nel bloccare l’avanzata del tumore e così i medici avevano optato per un’ultima disperata mossa: includerla in uno studio clinico con le CAR-T (uno dei primi). Secondo quanto riportato Nature Medicine, lo studio di Fase I NESTLES è stato attivo al Texas Children’s Hospital di Houston (Stati Uniti) dal 2004 al 2009 e ha arruolato 19 pazienti affetti da neuroblastoma con una storia clinica di recidive o ripetuti episodi di resistenza ai trattamenti: nello studio furono inclusi pazienti che avevano un’aspettativa di vita di meno di 3 mesi.

I ricercatori statunitensi avevano messo a punto un costrutto formato da linfociti T specifici per il virus di Epstein-Barr (EBV) e cellule T attivate CD3 in grado di esprimere un anticorpo (rinominato 14g2a nel trial ma di fatto rappresentava il recettore CAR) capace di legarsi al recettore GD2 presente sulla superficie delle cellule del neuroblastoma. “Unendo l’anticorpo 14g2a ai linfociti T che riconoscono l’EBV, crediamo di poter creare una cellula che può durare a lungo nel corpo (perché specifica per l’EBV) e che può riconoscere e uccidere le cellule del neuroblastoma (perché un anticorpo in grado di riconoscere queste cellule è stato posizionato sulla loro superficie)”, scrivevano gli autori parlando di quella che di fatto era la prima generazione di una CAR-T. Jane e altri 18 bambini e ragazzi si sono sottoposti ai prelievi necessari affinché i biotecnologi potessero disporre dei loro linfociti e modificarli in modo da esprimere il recettore CAR che aveva come bersaglio l’antigene GD2, un importante target anche per le moderne CAR-T contro i tumori al cervello (ne abbiamo parlato qui e qui). Una particolarità che gli autori hanno riportato è che queste CAR-T di prima generazione non contenevano la sequenza co-stimolatoria di cui sono attualmente equipaggiate le versioni più recenti, già entrate in commercio. Era l’epoca degli studi pionieristici sui “superlinfociti” che in meno di due decenni hanno subito un’evoluzione incredibile, simile al Cambriano, come illustrato recentemente dall’esperto Michel Sadelain.

Nel 2006 - sei anni prima che Emily Whitehead, bambina affetta da una leucemia linfoblastica incurabile, ricevesse la terapia a base di CAR-T che le avrebbe salvato la vita e l’avrebbe resa il simbolo di questo nuovo filone di cura - Jane raggiunse il Center for Cell and Gene Therapy del Texas Children’s Hospital dove si sottopose agli esami fisici ed ematochimici necessari, e poi ricevette l’infusione delle sue stesse cellule modificate. Secondo il protocollo del trial clinico sarebbe stata monitorata per i successivi 15 anni al fine di valutare sia l’efficacia che la permanenza in circolo delle CAR-T. Tra i medici che avevano condotto la sperimentazione c’era Helen Heslop, oggi direttrice del Centro di Terapia Cellulare e Genica del Baylor College of Medicine di Houston, che si interrogò più volte sull’esito di quel trattamento sperimentale. Nell’articolo ora pubblicato, Heslop e i colleghi hanno riportato i risultati del monitoraggio a 5 anni e poi quelli definitiva a 18 anni: undici i pazienti con malattia attiva avevano ricevuto il trattamento con le CAR-T e, di questi, tre hanno poi ottenuto una risposta completa che si è mantenuta in due di essi. Uno di loro è stato monitorato per 8 anni fino a quando non ha interrotto le visite di follow-up uscendo dallo studio, l’altra è Jane, arrivata ormai a 19 anni di monitoraggio senza che la malattia sia tornata a manifestarsi. Altri otto pazienti senza evidenza di malattia attiva hanno ricevuto le CAR-T e di questi cinque erano liberi da malattia all’ultimo follow-up, ovvero tra 10 e 15 anni dopo l’infusione. 

Jane oggi ha 23 anni, è madre di due bambini ed è la donna con la più lunga remissione dal cancro riportata a seguito di un trattamento con cellule CAR-T. La sua storia non è solo testimonianza concreta dell’efficacia di questi trattamenti che, seppur di prima generazione (sono già da tempo sostituiti con versioni più moderne), continuano a proteggerla dal ritorno del neuroblastoma, ma è anche un punto importante strappato nella lotta contro un tumore solido conosciuto per la sua aggressività e la sua resistenza ai trattamenti. Fino ad ora sono stati riportati i vari successi delle CAR-T contro le neoplasie del sangue ma la storia di Jane apre un nuovo fronte di speranza per tutti coloro che stanno conducendo ricerche con le CAR-T nel campo dei tumori solidi. A partire dagli scienziati dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che hanno recentemente dimostrato risultati molto incoraggianti nell’utilizzo - proprio contro il neuroblastoma - delle CAR-T allogeniche, che rappresentano l’ultima frontiera dei “superlinfociti.    

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