Nel numero speciale del CRISPR Journal dedicato alle sperimentazioni cliniche viene proposto un piano d’azione per evitare che il potenziale terapeutico dell’editing vada sprecato
È passato poco meno di un anno da quando il primo trattamento a base di CRISPR (Casgevy) è stato approvato negli Stati Uniti e, successivamente, in Europa. Il primo paziente trattato oltreoceano al di fuori di uno studio clinico è un afroamericano di 12 anni affetto da anemia falciforme. E anche l’Italia è pronta a partire con il primo paziente “non sperimentale” (Osservatorio Terapie Avanzate ne ha parlato qui). Ma chi si aspetta che le autorizzazioni per nuove terapie di editing genetico arriveranno a tamburo battente resterà deluso. Il Casgevy, infatti, rischia di svettare come una cattedrale nel deserto. Disponiamo di una piattaforma super-versatile che potrebbe correggere una miriade di difetti genetici, perché allora le cure sono destinate ad arrivare negli ospedali con il contagocce?
Fyodor Urnov è uno dei pionieri dell’editing genetico, attualmente in forze all’Innovative Genomics Institute fondato da Jennifer Doudna, e rappresenta una voce appassionata nel dibattito pubblico sulle terapie avanzate per le malattie rare e ultra-rare. Il suo editoriale, in apertura del numero speciale del CRISPR Journal dedicato ai trial clinici condotti con CRISPR, vale come una sferzata. “Il settore sta attraversando una fase di crisi vera e propria, che può e deve essere rapidamente risolta”, afferma nell’incipit. La parola crisi può sembrare una bestemmia considerata la quantità di pubblicazioni che continuano a uscire. Le sperimentazioni cliniche registrate sono ormai un centinaio, come documenta un altro articolo uscito sullo stesso numero della rivista. Inoltre non passa una settimana senza che ci sia qualche progresso in laboratorio: un’altra mutazione corretta, un nuovo enzima utile per correggere il DNA o un nuovo modo per portare gli ingredienti necessari dentro alle cellule da editare. Le difficoltà, in effetti, si concentrano più a valle nel percorso che dovrebbe arrivare fino al letto dei malati.
Desta preoccupazione, in particolare, che alcune società del settore abbiano iniziato a tagliare il personale e che più o meno tutte abbiano sfrondato i loro programmi di ricerca e sviluppo per concentrarsi su pochi rami, quelli da cui pendono i frutti più maturi. Un esempio paradigmatico è quello del bambino con amaurosi di Leber che è stato curato soltanto in un occhio e non potrà essere trattato nell’altro, perché la sperimentazione è stata interrotta nonostante i buoni risultati. Il modo migliore per spiegare la situazione ai non specialisti è porre la domanda: quali saranno i prossimi trattamenti approvati? Sfortunatamente la risposta è breve. Per come stanno le cose, probabilmente il secondo prodotto a tagliare il traguardo sarà quello di Editas, sempre per l’anemia falciforme. Poi, tra il 2026 e il 2027, potrebbe toccare a Intellia, con due trattamenti indicati per l’amiloidosi da accumulo di transtiretina e per l’angioedema ereditario. Ma per i prossimi 3-5 anni è tutto, non dovremmo aspettarci altro.
Le malattie dovute a mutazioni in un singolo gene, teoricamente trattabili con l’editing, superano il migliaio, ma solo dieci (lo 0,1%) sono concretamente perseguite dal settore privato. In particolare conosciamo centinaia di immunodeficienze primitive, ma solo una di queste è arrivata ai trial clinici (malattia granulomatosa cronica). Tra il dire e il fare, ci sono di mezzo alcuni ostacoli tecnici e un garbuglio di inefficienze da sbrogliare. Supponiamo che una patologia possa essere causata da 314 mutazioni a carico di 11 geni. Un’azienda che voglia affrontarla dovrà concentrarsi su una sola mutazione, e dunque su un sottogruppo di pazienti lasciando gli altri senza trattamento. Nello scenario regolatorio attuale, infatti, per ogni mutazione bisogna ripartire da zero per ottenere il via libera alla sperimentazione, anche se le procedure sono identiche e l’unica cosa che cambia è l’RNA guida che indirizza CRISPR verso la mutazione bersaglio. In pratica l’unica differenza sono 20 lettere su una stringa che ne ha un centinaio e che andrà a combinarsi con una proteina di 1.400 aminoacidi.
L’equivalenza “nuovo RNA guida=nuovo prodotto” ha il difetto di moltiplicare i tempi e i costi della fase preclinica, rendendo l’impresa insostenibile anche per le grandi industrie farmaceutiche. “Trattare tutti i pazienti con la stessa patologia attraverso l’approccio della singola richiesta IND (Investigational New Drug application) è fattibile come mandare migliaia di persone nello spazio ognuna con il proprio razzo”, scrive Urnov. Oppure, per usare un’altra delle sue similitudini, è come sperimentare da capo la ricetta per la pizza ogni volta che si cambia guarnizione. Che la vogliate ai peperoni o al salame, la pasta di base sarà sempre fatta di lievito e farina e il forno funzionerà allo stesso modo. C’è davvero bisogno di dimostrare che un pizzaiolo capace di fare la quattro stagioni è in grado di sfornare anche una napoli? Fuori di metafora, le cellule in coltura hanno esigenze che dipendono dalla biologia cellulare, non dal sito che si vuole editare sul DNA. E ancora: se si usano delle particelle nanolipidiche per portare CRISPR a destinazione, la loro distribuzione nel corpo dipenderà da come è composta la gocciolina di lipidi non dall’RNA guida in essa contenuta. Fa ben sperare che dal Center for Biologics Evaluation and Research (CBER) si siano alzate più voci a favore del cambiamento: i dati acquisiti per il prodotto parentale dovrebbero essere ritenuti validi, almeno in parte, per i prodotti derivati.
Compiere un unico grande balzo di semplificazione sarebbe rischioso, ma si potrebbe procedere un passo alla volta. Il primo potrebbe consistere nel raggruppare in un unico IND più RNA guida diretti su più mutazioni dello stesso gene, usando lo stesso tipo di strumento CRISPR. Poi, se tutto va bene, si potrebbe consentire l’uso di modelli diversi di CRISPR con guide diverse che prendono di mira lo stesso gene. In fondo nel settore dei vaccini per il cancro si procede con questa filosofia: i pazienti che partecipano alle sperimentazioni ricevono RNA messaggeri specifici per ciascuno di loro, senza che sia necessario chiedere ogni volta una nuova autorizzazione. L’importante è che sia approvata la piattaforma per farli, dal sequenziamento del tumore alla produzione dell’RNA su misura, fino alle modalità di somministrazione. Quale differenza c’è tra un paziente che sta morendo di melanoma metastatico e un bambino nato con una mutazione fatale? Secondo Urnov, “le uniche due differenze sono la capitalizzazione di mercato delle aziende coinvolte e il numero dei pazienti interessati”.
Un modello da seguire ci sarebbe: gli oligonucleotidi antisenso. In un caso recente è trascorso un solo anno tra la diagnosi e l’IND che ha reso possibile il trattamento sperimentale. La comunità dell’editing potrebbe ispirarsi, in particolare, al programma britannico “Rare Therapies Launch pad” per lavorare alla realizzazione di un centro no-profit per le cure CRISPR che si occupi di tutte le fasi, dalla progettazione degli strumenti per l’editing al manufacturing, facendo tutto il possibile per semplificare, standardizzare, integrare, scalare. Di pari passo dovranno crescere gli sforzi per abbassare i costi di queste terapie, che rischiano di essere economicamente insostenibili per i sistemi sanitari, e proprio di questo si occupa un altro articolo nello stesso numero del CRISPR Journal. Le difficoltà insomma sono tante, ma l’unione fa la forza, come nell’iniziativa del Consorzio SCGE che negli Stati Uniti riunisce cinque gruppi che si dedicano a malattie diverse in istituzioni accademiche differenti, ma che condividono il lavoro sugli aspetti regolatori. L’esperienza del COVID, con la miracolosa accelerazione nella produzione dei vaccini a RNA messaggero, dimostra che talvolta volere è potere.