La crescente diffusione di infezioni resistenti ai farmaci ha riacceso l’interesse per i nemici naturali dei batteri e per le loro varianti geneticamente potenziate
C’era una volta un filone di ricerca quiescente da oltre un secolo, ebbene ora si è risvegliato. Le sperimentazioni cliniche approvate sono decine, le riviste scientifiche documentano lo stato dell’arte pubblicando corpose rassegne, escono i primi libri che raccontano alcuni inaspettati successi su singoli pazienti e spuntano anche le prime inchieste di grandi testate come l’Economist. Parliamo dell’idea di mettere i microrganismi l’uno contro l’altro per sconfiggere le infezioni che minacciano la nostra salute. Si chiamano terapie fagiche, perché il compito di risolvere le patologie di origine batterica è affidato a minuscoli virus detti fagi o batteriofagi, che significa proprio “mangiatori di batteri”.
Questa storia inizia nel 1917, quando un microbiologo autodidatta franco-canadese, Félix d’Hérelle, contribuisce a scoprire i fagi e nel giro di un paio di anni li somministra ad alcuni bambini colpiti da dissenteria batterica. Ben presto partono i primi programmi incentrati su questo approccio in Georgia e in Polonia, dove sono tuttora attivi. I trattamenti hanno un successo variabile, perché le preparazioni non sono caratterizzate e purificate a dovere, ma in mancanza di meglio vengono adottati anche in occidente. Il declino inizia negli anni ’40: la scoperta della penicillina sembra aver reso i fagi obsoleti e la medicina occidentale preferisce voltare le spalle alle terapie in voga in Unione sovietica. A cambiare le carte in tavola, oggi, sono due ordini di considerazioni. Primo: i germi resistenti agli antibiotici costituiscono ormai un’emergenza globale, con oltre 1,2 milioni di morti all’anno, che potrebbero diventare addirittura 10 milioni nel 2050. Il nostro arsenale di farmaci antimicrobici appare drammaticamente sguarnito e l’ampio raggio di azione degli antibiotici, che un tempo era considerato un pregio, ora appare come un difetto perché favorisce la diffusione delle resistenze. Al contrario l’alta specificità dei fagi, che sono molto selettivi nella scelta del proprio bersaglio, è diventata una qualità. La seconda novità è che disponiamo finalmente delle tecnologie avanzate necessarie per perfezionare questi trattamenti.
I fagi sono gli organismi più antichi e abbondanti del mondo e hanno affinato le loro strategie molecolari durante una partita a scacchi evolutiva con i batteri che va avanti da miliardi di anni. Per usare al meglio il loro potenziale farmacologico è necessario scandagliare la biosfera, costruire banche in cui archiviare questa biodiversità, selezionare la combinazione di fagi giusti per ogni ceppo batterico e potenziare questi cocktail con l’aiuto delle nuove biotecnologie. Mentre nei laboratori ci si adopera per realizzare questi avanzamenti, un numero crescente di Paesi ha deciso di consentire un uso compassionevole dei fagi, caso per caso – si va dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Svezia all’Australia – avviando anche le prime iniziative per mappare le sfide logistiche e regolatorie. Il salto di qualità, però, si potrà fare soltanto con delle regolari sperimentazioni cliniche, che confrontino dosaggi e modalità di somministrazione, pesando rischi e benefici.
La maggioranza dei trial in corso impiega fagi “ambientali”, così come si trovano in natura, senza modificazioni genetiche. Si tratta di fagi detti “litici” (in contrapposizione a quelli “temperati”) perché dopo aver iniettato i propri geni dentro ai batteri si riproducono furiosamente fino a farli scoppiare. I primi fagi armati con CRISPR, comunque, hanno già debuttato sulla scena e la loro brevettabilità promette di accrescerne il potenziale attrattivo per il settore privato.
Il filone più avanzato riguarda le infezioni causate da un batterio fecale (E. coli) che si fa strada facilmente nelle vie urinarie, soprattutto nelle donne, e può diventare pericoloso quando raggiunge i reni o entra nel flusso sanguigno. Gli antibiotici non sempre riescono a risolvere il problema, che può diventare ricorrente e recalcitrante ai trattamenti. Una soluzione potrebbe arrivare da un cocktail di tre fagi progettato per attaccare i tre ceppi di E. coli responsabili del 95% delle infezioni dell’apparato urinario. La sperimentazione avviata a questo scopo dalla biotech statunitense Locus Biosciences vanta due record: è la prima a usare dei fagi potenziati con CRISPR, ed è anche la prima a utilizzare una variante delle forbici genetiche nota con la sigla Cas3. Mentre la versione standard di CRISPR, basata sull’enzima Cas9, effettua un taglio di precisione in un sito prescelto, la Cas3 riduce in brandelli il DNA batterico.
Un’altra sperimentazione, in fase meno avanzata, ha l’ambizione di combattere le infezioni opportunistiche che attaccano i pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia. Mettendo alla prova 162 fagi con 82 ceppi di E. coli, l’azienda danese SNIPR Biome è arrivata a mettere a punto un cocktail composto da quattro virus potenziati con CRISPR e lo ha presentato su Nature Biotechnology (ne abbiamo parlato qui) .
Vale la pena ricordare che in natura il sistema CRISPR nasce come un’arma con cui i batteri si difendono dai virus che li attaccano. Armare i fagi con CRISPR, dunque, è un ribaltamento di prospettiva. La corsa agli armamenti che impegna dalla notte dei tempi il mondo microbico vale anche come un monito sul fatto che i batteri patogeni presto o tardi diventeranno resistenti anche alle terapie fagiche. Ma la possibilità di modificare geneticamente i fagi è considerata un’opportunità preziosa per ampliare le mosse a nostra disposizione e allungare l’efficacia delle future terapie, in combinazione con gli antibiotici o in alternativa a questi, a seconda dei casi.