editing genomico, anemia falciforme

Una ricerca dell’Università della Pennsylvania potrebbe rivoluzionare l’approccio terapeutico per malattie del sangue come l’anemia falciforme 

Di questi tempi troppe spesso i trattamenti a base di cellule staminali vengono presentati come una soluzione “facile e rapida” per gravi malattie genetiche e tumori, persino per condizioni dalla prognosi meno severa. Ciò non è del tutto corretto: da una parte riflette i passi avanti che la medicina sta facendo nel campo delle terapie avanzate per malattie fino a qualche anno fa incurabili, dall’altro sembra dimenticare che la manipolazione e l’utilizzo delle staminali è una procedura tutt’altro che banale. E che continua a sollevare molti ostacoli tecnici sul cammino di chi fa ricerca. A ricordare quanto possa essere arduo sfruttare le cellule staminali, come quelle ematopoietiche, in chiave terapeutica ci pensa un articolo pubblicato sulla rivista Science da un gruppo di scienziati dell’Università della Pennsylvania i quali hanno trovato un modo per aggirare alcuni di questi ostacoli.

ANEMIA FALCIFORME: I LIMITI DELLE TERAPIE EX VIVO

duna delle più diffuse su scala mondiale. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità circa il 5% della popolazione mondiale risulta portatore di una variante emoglobinica grave. Infatti, questa malattia è originata da una mutazione puntiforme che modifica un singolo aminoacido nel gene codificante per la catena della beta-globina all’interno della molecole di emoglobina. Ciò fa sì che i globuli rossi, anziché prendere la classifica forma discoidale, assumano una forma a falce - da qui il nome della malattia - provocando nei pazienti crisi dolorose, anemie emolitiche e danno d’organo. Negli anni i trattamenti degli episodi di dolore e della sindrome acuta toracica sono stati affrontati con farmaci come l’idrossiurea ma un notevole successo è stato ottenuto con il trapianto di midollo osseo da donatore compatibile.

Ancora più recentemente, grazie alle tecniche di editing del genoma è stato possibile tagliare traguardi inimmaginabili solo un decennio fa. In particolare, nel caso dell’anemia falciforme si è lavorato sulla modifica delle cellule staminali ematopoietiche (HSC) presenti nel midollo osseo. Ne è un esempio la terapia basata su CRISPR risultante dallo sforzo congiunto di CRISPR Therapeutics e Vertex Pharmaceuticals, da poco autorizzata nel Regno Unito, e attualmente in fase di valutazione in Europa dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA). Tuttavia, si tratta di una terapia ex vivo, cioè di quelle che prevedono il prelievo dal paziente delle cellule da modificare e poi ritrapiantare.

Ma, come fanno notare nel loro articolo i ricercatori dell’Università della Pennsylvania, le terapie ex vivo richiedono alti costi di sviluppo e, inoltre, vanno abbinate a pesanti cicli di chemioterapia che distruggano completamente le cellule malate prima del trapianto di quelle modificate, da cui dovranno prendere origine le future linee cellulari sane.

BASE EDITING E MODIFICHE IN VIVO 

Guidati dalla dottoressa Laura Breda e sotto il coordinamento del professor Hamdieh Parhiz, i ricercatori statunitensi hanno quindi cercato un modo per modificare le cellule in vivo, cioè direttamente nell’organismo del paziente, e hanno trovato un appiglio nella tecnologia basata sull’mRNA, sdoganata grazie allo sviluppo dei vaccini per il COVID-19 e da poco premiata con il Nobel per la Medicina. La dottoressa Breda e il suo gruppo di ricerca (di cui ha fatto parte anche Drew Weissman, che ha condiviso il Nobel con Katalin Karikò) hanno ideato una strategia in grado di riprogrammare le cellule staminali del midollo osseo direttamente all’interno del corpo del paziente, evitando così di dover ricorrere a regimi di condizionamento potenzialmente tossici, come la chemioterapia o le terapia radiante.

Innanzitutto essi hanno cercato tra tanti un antigene (CD117) espresso con elevata specificità sulle cellule bersaglio e hanno sviluppato contro di esso un anticorpo con cui hanno equipaggiato le loro nanoparticelle lipidiche (LNP), utilizzate come vettore del materiale per la manipolazione. Le nanoparticelle lipidiche, infatti, offrono una vantaggiosa e sicura soluzione per introdurre nelle cellule il sistema di editing. Così i ricercatori statunitensi hanno equipaggiato le LNP con l’mRNA e gli elementi necessari per la correzione e hanno testato gli esiti di tale processo su un modello murino, isolando le cellule e modificandole ex vivo. Sull’onda del primo successo hanno iniettato il loro sistema di correzione direttamente nel corpo dei topolini, osservando come le cellule staminali modificate fossero in grado di differenziarsi e dare origine ai vari elementi cellulari.

Una volta constatato il buon esito di questa fase è stato possibile lavorare su un modello della malattia, costruito con campioni di cellule staminali provenienti da diversi donatori. Il sistema di correzione - di tipo base editing - veicolato dalle LNP dentro le cellule era costituto da un RNA guida e un correttore specifico grazie a cui i ricercatori hanno cambiato un amminoacido nella sequenza, trasformando la mutazione patogenetica - che obbliga i globuli rossi ad assumere la forma a falce - in una variante non patogena (detta Makassar) presente in natura. In questo modo le cellule falciformi sono sparite dalla circolazione.

OLTRE L’ANEMIA FALCIFORME

Al di là del successo riportato dalla procedura di editing delle cellule staminali “malate”, nel loro articolo i ricercatori statunitensi considerano la possibilità di estendere questo approccio ai pazienti affetti da immunodeficienza combinata grave (SCID) i quali possono trarre benefici dal trapianto di cellule staminali ematopoietiche ma che, in molti casi, non riescono a tollerare la tossicità della chemioterapia necessaria a “ripulire” il midollo delle cellule malate per far spazio a quelle sane provenienti da donatore. 

Allo scopo di verificare l’efficacia dell’approccio basato sul vettore CD117/LNP in tale senso, essi hanno introdotto nelle cellule dei topi una terapia composta dall’mRNA del gene pro-apoptotico PUMA (p53 Up-regulated Modulator of Apoptosis), appositamente modificato per abbassare il rischio di tossicità epatica. Di nuovo, il sistema ha funzionato confermando la validità del metodo. L’entusiasmo legato agli ottimi risultati raggiunti si accompagna alle potenziali soluzioni che da essi giungeranno sia nella messa a punto di protocolli con cellule staminali ematopoietiche autologhe geneticamente modificate, sia per l’implementazione delle procedure di trapianto allogenico.

“Riteniamo che possa essere un approccio più economico”, ha affermato Parhiz nel corso di un’intervista. “Speriamo che gli oneri finanziari per il sistema sanitario siano minori, poiché queste infusioni non richiedono un ricovero in ospedale o in centri specializzati per la terapia cellulare e possono essere effettuate da un infermiere o medico”.

Sebbene siamo di fronte a risultati molto incoraggianti, che potrebbero essere la base per future terapie di modifica del genoma in vivo sicuri ed efficaci, va sottolineato che si tratta di dati ancora preliminari. Gli esisti descritti si riferiscono, infatti, a un modello murino e serviranno numerose altre ricerche per soddisfare le tante domande in attesa di risposta, soprattutto quelle relative al profilo di sicurezza del protocollo.

Con il contributo incondizionato di

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