Alzheimer

Oggi, giornata mondiale di questa grave patologia neurodegenerativa, è importante ricordare le terapie in arrivo e in via di sviluppo, ma anche il devastante impatto della COVID-19

Tra farmaci in fase di valutazione clinica, nuove strategie terapeutiche ancora in esplorazione - tra cui anche le terapie avanzate - e l’arrivo di biomarcatori che potrebbero permettere una diagnosi più accurata e precoce, la giornata mondiale per l’Alzheimer, che ogni anno si celebra il 21 settembre, potrebbe oggi essere accolta con un cauto ottimismo. Questo nonostante la pandemia COVID-19 e, in particolare, il lockdown abbiano avuto un impatto importante sul decorso della malattia, specie per i pazienti in fase iniziale e lieve/moderata. Come dimostra una recente indagine italiana in pubblicazione su Frontiers Psychiatry, condotta dal Gruppo di Studio sulla COVID-19 della Società Italiana di Neurologia per le demenze (SINdem).

UN FARMACO PROMETTENTE

La malattia di Alzheimer, patologia neurodegenerativa che colpisce le funzioni celebrali danneggiando la memoria, l’intelletto e il linguaggio, è una delle più note cause di demenza senile. La condizione clinica è causata dalla formazione di placche amiloidi e la comparsa di grovigli neurofibrillari che danneggiano i neuroni, distruggendo così l’encefalo e le sue funzioni. Oltre ad essere una malattia devastante, l’Alzheimer sta diventando una vera e propria piaga sociale.

Parlando di terapie l’unica molecola che al momento si intravede all’orizzonte è aducanumab, come ricorda la dott.ssa Amalia Cecilia Bruni, direttrice del centro regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme e presidente della SINdem, a cui si deve la scoperta della presenilina 1 e nicastrina, due proteine legate allo sviluppo dell’Alzheimer. Si tratta di un anticorpo monoclonale – sviluppato dalle aziende Biogen e Eisai – che è in grado di legare le forme aggregate di beta-amiloide (Aβ). Nel marzo del 2019 due sperimentazioni cliniche di Fase III avevano subito una battuta d’arresto, a causa di una sorta di analisi statistica ad interim, che aveva valutato prima della fine dello studio se erano stati raggiunti gli obiettivi, mostrando poche speranza di successo per l’anticorpo monoclonale. “Ma qualcosa non quadrava”, racconta Bruni. “I dati statistici non coincidevano con quelli osservati sui pazienti che in molti casi avevano mostrato una stabilizzazione e, in alcuni, addirittura un miglioramento. Sono state fatte una serie di analisi successive e, infine, dagli studi clinici di Fase III ENGAGE ed EMERGE sono emersi dati interessanti: i pazienti, soprattutto quelli in fase iniziale, rispondevano bene al farmaco, con una riduzione delle placche beta-amiloide nel cervello e una stabilizzazione del declino cognitivo”.

Questi dati hanno portato le due aziende a presentare una domanda di autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) statunitense, che ha accettato di esaminare con procedura di urgenza (Priorirty Review) il dossier registrativo di aducanumab. Una risposta è attesa entro marzo 2021 e se tutto andrà nel verso giusto, i clinici avranno a disposizione una nuova arma contro questa malattia neurodegenerativa. Con i limiti che ricorda Bruni, cioè che sarà destinato solo ad una parte della popolazione di pazienti affetti da Alzheimer, quella che si trova nella fase molto iniziale della malattia. Un criterio che richiede una diagnosi corretta e, soprattutto, rapida. Si tratterebbe però del primo farmaco in grado di ridurre il declino clinico della malattia di Alzheimer e che confermerebbe il collegamento tra riduzione della beta-amiloide e migliori risultati clinici.

BIOMARCATORI

Un punto cruciale nella gestione dell’Alzheimer resta dunque la diagnosi precoce e di conseguenza i biomarcatori che la consentono. Oggi la patologia viene diagnosticata con tomografia a emissione di positroni (PET) o dosaggio nel liquido cerebrospinale (CSF) del peptide Abeta42, tau totale e tau-181 fosforilata (p-tau181), in grado però di rilevare le alterazioni patologiche presenti in una fase già avanzata. Molto più utile sarebbe invece disporre di marcatori biologici che possano evidenziare in anticipo l’insorgenza della malattia, in modo da intervenire precocemente, con risultati significativi sul decorso clinico.

“La ricerca sui biomarcatori nel campo delle malattie neurologiche ha fatto di recente notevoli passi in avanti grazie allo sviluppo di metodiche ultrasensibili in grado di misurare analiti presenti anche a basse concentrazioni nel sangue, che riflettono alterazioni patologiche a livello centrale”, commenta Roberta Ghidoni, direttore scientifico dell'IRCCS Fatebenefratelli di Brescia, centro impegnato da tempo in questo ambito di ricerca. “In particolare, per quanto concerne le demenze una grande attenzione è oggi rivolta a due proteine che possono essere quantificate nel sangue: la catena leggera del neurofilamento (NfL) e la proteina tau fosforilata (p-tau-181)”. Un lavoro pubblicato lo scorso 1 luglio su Neurology, Neurosurery and Psychiatry - BMJ Journals - ha confermato l’utilità del dosaggio nel sangue di p-tau181 per distinguere l’Alzheimer da altre forme di demenza ed il valore prognostico del marcatore NfL”.

TERAPIA SU RNA

Nel panorama delle terapie avanzate, una strategia promettente è quella basata sugli oligonucleotidi antisenso (ASO) che vanno a regolare l’espressione dei geni agendo sull’RNA messaggero. Biogen ha avviato una collaborazione con l’azienda Ionis Pharmaceuticals per sviluppare un ASO in grado di reprimere la produzione di proteina tau, altra proteina che si ritiene essere coinvolta nello sviluppo dell'Alzheimer. Il farmaco, chiamato Ionis-MAPTRx aka BIIB080, è ora in uno studio clinico di Fase I/II su persone con malattia di Alzheimer sintomatica precoce. L’ASO è stato progettato per legarsi all'RNA messaggero del gene che codifica la proteina tau, riducendo così i livelli di proteina nel cervello. Ad oggi non sono disponibili risultati provvisori dello studio ma, come scrivono gli autori della review “Gene-specific treatment approaches in Alzheimer's disease and other tauopathies” pubblicata lo scorso aprile, “le strategie basate sugli ASO volte a ridurre la patologia della beta-amiloide e della tau rappresentano approcci promettenti per il trattamento di forme geneticamente determinate, ma anche sporadiche, di malattia di Alzheimer e tauopatie”.

EDITING GENOMICO E TERAPIA GENICA

In un altro studio, piuttosto pioneristico, pubblicato lo scorso febbraio su Stem Cell Reports, i ricercatori dell’Arizona State University hanno testato un nuovo sistema di base editing per modificare, in cellule staminali umane, alcuni geni implicati nella genesi della patologia. Approccio che ha dimostrato di poter apportare modifiche specifiche in entrambe le copie del gene APOE4, noto per essere associato ad un rischio di sviluppo della forma ad esordio tardivo della malattia, ma ben lontano ancora dall’essere sfruttato in clinica.

Proprio lo scorso febbraio Biogen ha stretto un accordo con Sangamo Therapeutics, azienda leader nel settore dell’editing genomico basato sulle proteine zinc finger coniugate a fattori di trascrizione (ZFP-TFs). Questo sistema di editing, trasportato all’interno delle cellule da vettori virali (AAV), ha l’obiettivo di modificare in maniera mirata il DNA attivando o reprimendo specifici geni e ottenere così l’effetto terapeutico desiderato. Tra le terapie sperimentali di Sangamo vi è ST-501: ZFP-TF ideata per reprimere la proteina tau, altra proteina che si ritiene essere coinvolta nello sviluppo dell'Alzheimer. Ovviamente si tratta di un approccio ancora in fase di ricerca preclinica ma che potrebbe avere risvolti interessanti.

Sul fronte della terapia genica, un trattamento sperimentale, per cui è stato avviato un trial clinico di Fase I a marzo 2019, è stato messo a punto da Ronald Crystal della Weill Cornell Medicine di New York. La strategia prevede di veicolare una copia del gene E2 (APOE2) nelle cellule del cervello, grazie a un vettore virale adeno-associato (AAVrh.10h). Questo permetterebbe la sintesi dell’apolipoproteina E2 che, secondo quanto finora osservato, è in grado di ridurre il rischio di Alzheimer.

L’IMPATTO COVID-19

La non buona notizia registrata, invece, nel 2020 riguarda invece “l’effetto COVID-19”. “In particolare, il lockdown ha devastato i pazienti con demenza”, precisa Bruni. “Durante il picco della pandemia tutti centri che si occupano di demenza sono stati chiusi e i pazienti sono rimasti confinati in casa. Queste restrizioni hanno indotto un peggioramento dei disturbi comportamentali”. È quanto emerge da un’indagine condotta dal gruppo SINdem COVID-19, coordinato dalla dott.ssa Bruni, su 4.913 familiari, che ha coinvolto 87 Centri specializzati in tutta Italia. I risultati mostrano che la quarantena ha provocato un peggioramento dei disturbi comportamentali pre-esistenti o la comparsa di nuovi sintomi neuropsichiatrici per il 60% dei pazienti. “La pandemia ha avuto un impatto importante sulla storia naturale dell’Alzheimer, in particolare nei pazienti con malattia iniziale e medio-moderata”, conclude Bruni. “Inoltre, in un quarto dei casi questa nuova condizione era tale da richiedere la modifica del trattamento farmacologico”. I dati emersi vanno ora considerati in funzione della riorganizzazione dei servizi assistenziali per le patologie neurodegenerative – ricorda infine il gruppo di ricerca – che dovrà tenere in conto la necessità di monitoraggio e supporto a distanza, in modo continuativo e flessibile, in base allo scenario epidemiologico futuro.

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