base editing, leucemia, immunoterapia

Uno studio svizzero punta alla combinazione di strategie di immunoterapia e di base editing per colpire le cellule tumorali senza danneggiare quelle sane 

Se trenta anni fa aveste chiesto agli scienziati di scommettere sui più promettenti campi di studio da cui ottenere soluzioni valide nella lotta al cancro, molti avrebbero puntato sulla possibilità di bloccare la replicazione cellulare, altri sui sistemi che impediscono alle cellule di entrare in apoptosi. Quasi nessuno avrebbe creduto nelle possibilità del sistema immunitario di combattere le cellule cancerose. Oggi, invece, l’immunoterapia è una collaudata pratica clinica alla cui radice c’è la comprensione della sofisticata capacità di riconoscimento delle cellule tumorali. Ed è grazie ai più innovativi strumenti di editing del genoma che ricercatrici come Romina Marone e Jessica Zuin, del Dipartimento di Biomedicina dell’Università e dell’Ospedale di Basilea (Svizzera), stanno lavorando per mettere a punto nuovi approcci per rendere ancora più mirato il riconoscimento cellulare con l’obiettivo di permettere di rinnovare il sistema ematopoietico di una persona malata di leucemia, distruggendo le cellule malate ma risparmiando quelle sane. La strategia è stata descritta in un articolo pubblicato sulla rivista Nature.

UN MARCATORE DIFFICILE DA PRENDERE DI MIRA

L’idea di usare una mutazione puntiforme per modificare le cellule staminali e ricostituire l’intero sistema ematopoietico di una persona affetta da una malattia del sangue risale al 2016 quando abbiamo cominciato a usare CRISPR per introdurre delle mutazioni mirate in un antigene specifico, osservando poi che l’anticorpo diretto contro di esso non era più in grado di riconoscerlo”, ricorda Romina Marone, co-primo autore dell’articolo pubblicato quest’anno sulla rivista Nature. Nello studio il team di ricerca descrive lo sviluppo di un approccio che combina l’utilizzo di un anticorpo, coniugato a un tossina (chiamato ADC), diretto contro l’antigene CD45 espresso su una vasta gamma di cellule dell’organismo, sia sane che tumorali.

Infatti, l’antigene CD45 - o recettore C della tirosina fosfatasi - è una molecola di segnalazione espressa sulla superficie di tutte le cellule ematopoietiche, sia le cellule staminali e progenitrici che le cellule tumorali ematologiche fino alle altre cellule differenziate del sangue. È coinvolto in vari processi di crescita e differenziazione cellulare ed è, di conseguenza, un obiettivo poco specifico: usandolo come riferimento per la costruzione di un sistema tramite cui colpire le cellule tumorali si finirebbe per annientare anche quelle sane.

“Nelle nostre ricerche iniziali questo antigene non era in cima alla lista di quelli da considerare”, prosegue Marone. “Abbiamo dapprima focalizzato l’attenzione su antigeni meno diffusi, come CD123 o CD117, dal momento che eliminare le cellule che esprimevano CD45 avrebbe significato distruggere sì il tumore ma con esso anche i linfociti B e T, praticamente azzerando il sistema immunitario del paziente”. Un’operazione inconciliabile con la sopravvivenza dell’organismo. Un trattamento basato sull’antigene CD45 richiedeva la messa in atto di una strategia di selezione con cui proteggere le cellule staminali sane, evitando di distruggere alla radice il sistema ematopoietico del paziente.

LA STRATEGIA DEL CELL SHIELDING 

A questo punto è entrato in gioco l’editing del genoma tramite cui i ricercatori hanno ingegnerizzato le cellule staminali sane, alterando l’antigene CD45 in maniera tale da renderlo invisibile all’anticorpo coniugato alla tossina. “Quello che è stato elaborato è un sistema di Cell Shielding, vale a dire di protezione delle cellule staminali sane che vengono così infuse al paziente”, precisa Jessica Zuin. “Successivamente alla somministrazione di un anticorpo diretto contro l’antigene CD45 vengono eliminate le cellule malate ma non le nuove staminali alle quali l’anticorpo non riesce a legarsi. Da esse parte la ricostituzione di un nuovo sistema ematopoietico ora libero dalla malattia”.

In pratica grazie a questo sistema diventa possibile ripulire in maniera selettiva dalle cellule malate il midollo dei pazienti leucemici, per fare posto a cellule staminali in grado di ripristinare da zero gli elementi corpuscolari del sangue. “La parte più difficile del lavoro è consistita nell’identificare la mutazione giusta su cui agire”, riprende Marone. “Ci siamo avvalsi della collaborazione tecnica e scientifica dei colleghi di Cimeio Therapeutics, la start-up fondata da Lukas Jeker che ha coordinato l’intero processo di ricerca. Abbiamo effettuato robusti studi di biologia computazionale sul dominio extracellulare dell’antigene CD45 allo scopo di identificare le regioni adatte alla modifica e ci siamo concentrati su alcuni domini in particolare”. Era essenziale non distorcere la struttura, cambiando la funzione dell’enzima e ciò è stato reso possibile grazie a uno studio esaustivo usando l’alanine scanning (scansione dell’alanina), una tecnica che, modificando i residui aminoacidici sospettati di partecipare a certe attività cellulari, permette di individuare quelli necessari per il legame degli anticorpi.

Il fulcro dell’intera ricerca è stato però il ricorso a un base editor, uno strumento di fine ingegneria genetica che consente di cambiare solo alcune basi genetiche, senza alterare la funzione dell’antigene CD45. “Abbiamo trovato le varianti di CD45 da usare negli esperimenti, quelle che ne preservano la funzionalità e le abbiamo usate per crearne una versione invisibile al complesso ADC”, aggiunge Zuin. “In questo modo è stato possibile proteggere le cellule staminali ematopoietiche dal trattamento e consentire la rigenerazione delle cellule ematiche sane post-trattamento”. 

UN EQUILIBRIO DIFFICILE DA TROVARE

Altri gruppi di ricerca stanno sviluppando i loro strumenti di base editing a partire da un procedimento analogo di studio della struttura del marcatore e di ricerca della mutazione idonea a distinguere tra celle sane e malate. “Non tutte le mutazioni hanno lo stesso valore perciò abbiamo condotto lunghi e approfonditi test di funzionalità su quelle scelte”, precisa Marone. “In secondo luogo occorre avere un anticorpo adatto, che susciti un effetto ma che non sia troppo aggressivo da eliminare tutte le cellule. Quello da ricercare è un equilibrio fine tra antigene e anticorpo”. Gli ADC sono costituiti proprio da anticorpi mirati contro specifici antigeni - come il CD45 - ma coniugati a molecole tossiche che eliminano le cellule bersaglio: una volta legato alla cellula bersaglio, l’ADC viene internalizzato e rilascia una molecola tossica in grado di uccidere la cellula.

I ricercatori svizzeri hanno così testato su una vasta gamma di linee cellulari ematopoietiche il loro anticorpo dimostrandone l’efficacia elevata nel distruggere le cellule tumorali ematologiche che esprimono il CD45 naturale, ma non quelle modificate. I ricercatori hanno svolto una serie di test su topi immunodeficienti nei quali erano state trapiantate le cellule staminali ematopoietiche umane geneticamente modificate. I topi sono stati poi trattati con l’anticorpo scelto ed è stato possibile osservare che l’ADC era in grado di eliminare completamente le cellule tumorali ematopoietiche senza danneggiare le staminali modificate, che sono sopravvissute e hanno ricostituito il sistema ematopoietico sano. Tale sistema immunitario ricostituito non solo era funzionante, ma anche in grado di produrre una gamma completa di cellule del sangue. Inoltre, gli esperimenti hanno dimostrato che il trattamento non ha provocato effetti collaterali significativi sui topi, facendo registrare un buon profilo di sicurezza per l’approccio.

DALLE LEUCEMIE ALL’HIV

Grazie al sistema del Cell Shielding il paziente potrebbe essere sottoposto a un regime di chemioterapia di condizionamento più lieve prima di affrontare il trapianto di cellule staminali ingegnerizzate”, aggiunge Zuin. “Di conseguenza, si potranno eliminare le cellule malate con i trattamenti immunoterapici post-trapianto mentre rimangono ben protette le cellule ingegnerizzate tramite cui si ricostruisce il sistema immunitario. Questo potrebbe consentire anche agli individui più fragili di tollerare meglio la procedura di trattamento”.

Sono gli stessi ricercatori a far presente che il potenziale di questa terapia si estende oltre il trattamento dei tumori ematologici, suggerendo una possibile applicazione ad altre condizioni che richiedono il rinnovo completo del sistema immunitario, come le malattie autoimmuni gravi e persino l’infezione da HIV. “Combinando l’approccio di Cell Shielding e di modifica di uno o più recettori che il virus sfrutta per infettare le cellule, si può pensare di ipotizzare di eliminare del tutto le cellule malate”, spiega ancora. “Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare per confermare la sicurezza e la precisione dell’approccio il cui maggior effetto collaterale possibile è dato dalle mutazioni fuori bersaglio”. L’approccio dei ricercatori svizzeri ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza negli studi preclinici, che dovrà trovare riscontro in altri successivi studi.

“Continueremo a lavorare per traslare nella pratica clinica i nostri risultati”, conclude Marone. “Al momento stiamo continuando a indagare l’effetto di possibili altri antigene bersaglio, anche prendendone di mira più di uno insieme, dal momento che le popolazioni cellulari leucemiche tendono a ripresentarsi con nuove mutazioni. Inoltre, stiamo studiando la persistenza dell’ADC e lo stiamo mettendo a confronto con le strategie di modifica basate sull’espressione dell’antigene di sintesi CAR”. Molte strade tutte da percorrere per un approccio che promette di essere applicato a un lungo elenco di patologie resistenti ai trattamenti.

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