Slybera, l’imitazione illegale di Glybera, non garantisce la sicurezza e l’efficacia attesa è minore.
“È la conseguenza di avere lasciato che l'enfasi andasse sul prezzo – spiega ad OTA il prof. Gilberto Corbellini – Ma dalla popolazione, che già coltiva opinioni negative su Big Pharma, sarà percepito come un atto di giustizia sociale: accentuerà i fraintendimenti

Il farmaco più costoso al mondo: così è stata definita, qualche anno fa, la terapia genica alipogene tiparvovec sviluppata da UniQure e approvata per il trattamento del deficit di lipoproteina lipasi (LPLD) con il nome commerciale Glybera. Ora, un gruppo internazionale di biohacker – biologi indipendenti e appassionati, che operano al di fuori dei canali convenzionali – afferma di aver prodotto una versione del farmaco più semplice e meno costosa e vorrebbe fare appello agli scienziati universitari e aziendali per aiutarli a testarla e migliorarla. La differenza, al di là del costo, si trova anche nel meccanismo di funzionamento: non più vettori virali - utilizzati generalmente in terapia genica per veicolare il ‘gene terapeutico’ - troppo costosi, ma dei cosiddetti ‘minicircle’, cioè piccoli plasmidi (molecole di DNA circolare) in cui è stata inserita la sequenza genetica per la produzione dell’enzima mancante.

Glybera è stata sviluppata da ricercatori canadesi per il trattamento della LPLD, una patologia molto rara, ma più diffusa in alcune zone del Quebec. Nel 2012 è stata la prima terapia genica autorizzata all’immissione in commercio dalla European Medicines Agency (EMA) e si basa sull’utilizzo di vettori virali che contengono una copia del gene funzionante. Sebbene fosse efficace nella prevenzione delle pancreatiti legate all’accumulo di grasso nel sangue dovuto alla carenza dalla lipoproteina lipasi, il farmaco è stato ritirato nel 2017 a causa del rapporto costo/efficacia troppo alto. Mentre 31 pazienti hanno ricevuto il trattamento partecipando a studi clinici, e quindi usufruendone gratuitamente, solo un paziente ha pagato il trattamento (tramite assicurazione).

Come descritto su MIT Technology Review, i biohacker hanno cercato informazioni sulla sequenza genica dell’enzima obiettivo della terapia, ne hanno ordinata una copia a una società biotecnologica e poi l’hanno aggiunta alla sequenza dei minicircle. Quando iniettati nella cellula, i minicircle vengono trascritti e tradotti e, di conseguenza, viene prodotta una piccola quantità dell’enzima mancante. Ma la versione economica – il costo del prototipo dovrebbe costare circa 7 mila dollari – dei biohacker, chiamata Slybera, non funziona come l’originale (e le quantità di enzima prodotte sono più basse) e, soprattutto, non ha intrapreso il complesso percorso fatto di studi preclinici e clinici e procedure burocratiche propedeutico all’approvazione di un farmaco. Il costo elevato e la mancata reperibilità in commercio di Glybera sono in qualche modo la giustificazione del biohacking, ma resta una procedura incompatibile con la vendita legale del farmaco. Inoltre, i biohacker affermano di aver bisogno di aiuto per i test preclinici su modelli animali, dato che questa parte è estremamente costosa – e complicata – da fare “in garage”. L’elevato costo di un farmaco è dovuto anche a tutti questi passaggi di validazione scientifica e la richiesta di collaborazione da parte degli stessi biohacker sottolinea la necessità di personale, strutture e procedure adeguate, senza le quali non si potrebbe arrivare alla vendita del farmaco.

“Era inevitabile che, qualora fosse stato possibile, qualcuno avrebbe provato a piratare questi nuovi farmaci estremamente costosi. È la conseguenza di avere lasciato che l'enfasi andasse sul prezzo di questi prodotti, che fa indubbiamente impressione, e della mancanza di trasparenza sui costi sostenuti per metterli a punto”, commenta il professor Gilberto Corbellini, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. Il percorso di approvazione di un farmaco è complesso e le terapie avanzate devono rispettare gli stessi criteri, dato che grazie alla Direttiva n.1394/2007 rientrano a tutti gli effetti nella definizione di farmaco. Una decina di anni e qualche miliardo di dollari sono richiesti per la ricerca, la sperimentazione e la produzione di una nuova terapia e un’azienda farmaceutica deve ovviamente rientrare dell’investimento. Il percorso è lungo e prevede numerosi passaggi, a partire dalle sperimentazioni precliniche, fino ad arrivare all’approvazione da parte degli enti regolatori (come EMA in Europa e FDA negli Stati Uniti).

Per avere questo tipo di autorizzazioni, il garage non è certo la struttura adeguata: i luoghi dove si producono le terapie geniche, cellulari o altri farmaci devono essere certificati GMP (Good Manifacturing Practices), cioè seguire le norme di buona fabbricazione. Tutte queste limitazioni, seppur complesse e macchinose in certi aspetti, servono a tutelare il consumatore, cioè il paziente, e ad evitare truffe sanitarie. “In sé l'operazione non è un atto sensato e mette a rischio la salute: si tratta di un reato, perché esistono leggi che proteggono i diritti intellettuali di chi ha investito per creare qualcosa di originale e terapeuticamente efficace, così come si tratta comunque di qualcosa che non è davvero lo stesso prodotto, in quanto usa modalità diverse per veicolare il gene terapeutico, per cui non ci sono prove che sia altrettanto sicuro ed efficace di Glybera”, prosegue Corbellini. “Nondimeno, dalla popolazione generale, che già coltiva opinioni molto negative su Big Pharma, sarà percepito come un atto di giustizia sociale, e quindi accentuerà i fraintendimenti sulla natura dei rapporti tra scienza e industria farmaceutica”.

Per il momento esiste solo un prototipo di Slybera e, senza ulteriori indagini e sperimentazioni nella modalità standard e regolamentata, non si arriverà alla commercializzazione attraverso le vie ufficiali (e legali). Nell’ipotesi di un eventuale conferma della possibilità di produrre una terapia genica in garage e a costi ridotti – tenendo conto di tutte le considerazioni del caso – le conseguenze potrebbero essere complicate da gestire. Al di là del costo, vi attirerebbe l’idea di assumere un farmaco che agisce sul DNA, prodotto in un garage, senza una regolamentazione e senza essere stato sottoposto alle procedure di controllo pre e post commercializzazione? I biohacker possono essere biologi indipendenti e avere le competenze necessarie per lavorare in questo settore (magari in strutture adeguate), ma non si tratta solo di questo. Per la tutela dei pazienti serve di più.

 

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