diabete

I risultati di uno studio clinico britannico confermano la validità di un sistema chiuso per il controllo della glicemia in Real Life in pazienti con diabete mellito di tipo 2

Il diabete è una delle patologie più diffuse al mondo - secondo una recente stima dell’International Diabetes Federation (IDF) nel mondo sarebbero oltre 530 milioni le persone tra 20 e 79 anni a soffrirne - e, di conseguenza, è una delle patologie che incide maggiormente sulla spesa sanitaria dei singoli Paesi. Anche per questo motivo, ha suscitato un grande interesse la notizia di pochi mesi fa dell’avvio, nel Regno Unito, di un ampio studio clinico condotto con un innovativo dispositivo a “circuito chiuso” – in grado di monitorare il glucosio e rilasciare insulina - su pazienti con diabete mellito di tipo 1. L’attenzione in questo ambito è ora rafforzata dalla recente pubblicazione, sulla rivista Nature Medicine, dei risultati di un altro studio clinico condotto questa volta su persone con diabete di tipo 2.

LA SFIDA DEL DIABETE DI TIPO 2

Questa forma di diabete è la più diffusa al mondo - solo negli Stati Uniti rappresenta tra il 90 e il 95% dei casi di malattia - ed è caratterizzata da insulino-resistenza, che inizia a manifestarsi a livello del fegato e dei muscoli. A differenza degli individui con diabete di tipo 1, dove la distruzione autoimmune delle cellule beta del pancreas provoca un deficit assoluto di insulina, in coloro che sviluppano il diabete di tipo 2 i livelli di insulina nel sangue sono di solito normali. Di conseguenza, i pazienti non sono completamente dipendenti dall’insulina. Questa importante differenza costituisce anche un livello di difficoltà nella realizzazione di dispositivi tecnologici come il “pancreas artificiale”. È dello scorso maggio la notizia dello sviluppo clinico di tale genere di innovazione tecnologica per i pazienti con diabete mellito di tipo 1, che aveva suscitato un certo interesse in coloro che sono costretti a dipendere dall’insulina e vivono nel timore di picchi glicemici dalle gravissime conseguenze per l’organismo. Un interesse che ora potrà diffondersi anche nei pazienti colpiti da diabete di tipo 2.

Come spiega il dott. Roy W. Beck, del JAEB Center for Health Research di Tampa, in un articolo di accompagnamento ai risultati del trial inglese pubblicato sullo stesso numero di Nature Medicine, la messa a punto di questi sistemi tecnologici rappresenta un’autentica sfida per medici e ingegneri poiché gli effetti del rilascio dell’insulina sottocute sono più lenti di quelli suscitati dallo stesso ormone normalmente prodotto dal pancreas. Pertanto, la risposta all’iperglicemia di tali dispostivi potrebbe essere troppo lenta e questo ha indotto molti sviluppatori a testare “sistemi ibridi” in cui sia il paziente stesso a comunicare l’introito di carboidrati o calorie al software che, così, ottimizza il rilascio dell’insulina. Ma ciò significa aggiungere un grado di complicazione alla routine di un diabetico, riducendo il vantaggio proposto dal “pancreas artificiale”.

UN PANCREAS ARTIFICIALE: COSA SIGNIFICA?

Ebbene, il punto di forza del sistema descritto sulle pagine di Nature Medicine è di non richiedere questo passaggio all’utente. Come funziona, dunque, il “pancreas artificiale” per i pazienti con diabete di tipo 2? Il termine “pancreas artificiale” può apparire fuorviante perché, di fatto, non si tratta di un organoide o di un prodotto di terapia cellulare bensì di un “circuito chiuso” (closed loop system) consistente in un sensore per il monitoraggio continuo del glucosio che, ogni 5 minuti, misura il valore di questo parametro nel fluido interstiziale (quindi non nel sangue capillare). Il sensore, una sorta di elettrodo, viene posizionato in maniera del tutto indolore nel tessuto sottocutaneo, a livello dell’addome del paziente. L’aspetto innovativo è dato da un’applicazione con cui il sensore comunica e che, sulla base della concentrazione di zucchero registrata, determina il rilascio mirato di insulina tramite un microinfusore, cioè una pompa agganciata in prossimità del sensore stesso. In pratica il sistema si compone del sensore e di un sofisticato algoritmo che elabora istantaneamente i dati ricevuti e li traduce in impulsi per azionare la pompa.

Il risultato di tutto ciò è un estremo miglioramento della qualità di vita dei pazienti diabetici. Tuttavia, l’obiettivo dei ricercatori britannici non era solo questo poiché era prima necessario appurare il buon funzionamento del sistema. A questo è servito lo studio clinico che ha coinvolto 28 pazienti affetti da diabete di tipo 2, con un’età di circa 59 anni e precedentemente sottoposti da almeno 8 anni a trattamento intensivo con terapia insulinica. “I dati condivisi dai colleghi del gruppo di Cambridge fanno riferimento ad una tecnologia che già aveva dimostrato la propria efficacia nel diabete di tipo 1 e nelle persone con diabete di tipo 2 in dialisi”, commenta Paolo Di Bartolo, Presidente della Fondazione AMD (Associazione Medici Diabetologi). “Questo nuovo studio ha valutato il sistema CamAps Hx in una specifica sottopopolazione di persone con diabete tipo 2, per le quali questo dispositivo potrebbe rappresentare, in futuro, una possibile proposta terapeutica”.

OBIETTIVI CENTRATI

L’obiettivo primario dello studio clinico, condotto con l’utilizzo del dispositivo a circuito chiuso (denominato CamAPS HX) su 30 pazienti, è la capacità del sensore di mantenere il livello di glucosio dentro gli intervalli di riferimento ed è risultata ampiamente migliore nel gruppo di pazienti dotati del “pancreas artificiale” rispetto al gruppo di controllo con terapia insulinica. Inoltre, questo sistema sembra permettere una riduzione del livello della emoglobina glicosilata (HbA1c) e dei periodi trascorsi in iperglicemia rispetto al gruppo di controllo. Accompagnati dai dati di sicurezza, questi risultati sono fortemente indicativi dell’utilità del sistema per una categoria di pazienti molto diffusa ma che, si spera, potrà ridursi sempre più nel prossimo futuro grazie allo sviluppo di terapie efficaci nel controllo della glicemia e nella riduzione delle complicanze vascolari (nefropatia, cardiopatia o arteriosclerosi).

Il progressivo invecchiamento della popolazione mondiale e l’aumento dell’obesità, conseguenza di una dieta sempre più calorica dal punto di vista nutrizionale, hanno inciso fortemente sulla crescita del numero di persone affette da diabete mellito di tipo 2 rendendo prioritario ogni intervento ridurre l’incidenza di tale patologia. “La soluzione messa a punto nel Regno Unito potrebbe rappresentare un valido alleato per lo specialista in alcune situazioni cliniche, oltre ai pazienti arruolati nello studio immaginiamo, ad esempio, all’esordio in pazienti molto scompensati”, conclude Di Bartolo. “Ma potrebbe rappresentare anche uno strumento per il superamento dell’inerzia terapeutica nella titolazione della terapia insulinica e nella riduzione dei rischi di ipoglicemia che sono elevati in corso di terapia insulinica e spesso rappresentano una barriera alla piena aderenza del paziente alla terapia prescritta. Restano da verificare la sostenibilità economica di tali soluzioni - in Italia sono oltre 600.000 i pazienti in terapia insulinica - e l’attitudine nelle diverse fasce di età delle persone con con diabete di tipo 2 all’impiego di tali tecnologie - in Italia solo il 11 % di tale popolazione ha una età inferiore ai 55 anni”.

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