Due nuovi studi dimostrano che l’intelligenza artificiale (AI) può individuare le persone a rischio di sviluppare il Parkinson con diversi anni di anticipo rispetto alla comparsa dei sintomi
Il futuro della diagnostica in medicina è destinato a incrociare sempre di più la strada dell’intelligenza artificiale (AI). Grazie ai metodi di apprendimento automatico, le AI possono essere addestrate per identificare malattie con una affidabilità sovrapponibile a quella del medico o addirittura con anni di anticipo rispetto alla comparsa dei primi sintomi clinici. La sfida è aperta, soprattutto per le malattie neurodegenerative per cui una diagnosi precoce può fare la differenza. Nelle prime fasi della malattia di Parkinson, ad esempio, i farmaci sono più efficaci e possono rallentarne o modificarne il decorso. Due studi pubblicati su ACS Central Science e su Nature Medicine esplorano le potenzialità dell’AI per accelerare le diagnosi di Parkinson, anche con 10 anni di anticipo.
IL FATTORE “TEMPO” NEL PARKINSON
La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che colpisce soprattutto le persone con più di 60 anni, con un’incidenza molto variabile che va dai 2 ai 22 casi ogni 100.000 persone (dati: Istituto Superiore di Sanità). I pazienti affetti da Parkinson nel mondo sono circa 5 milioni, di cui circa 400.000 solo in Italia – un numero destinato ad aumentare nei prossimi anni.
Il Parkinson è il più frequente tra i cosiddetti “disordini del movimento”. La causa è un calo nella produzione di dopamina nel cervello, che è una diretta conseguenza della degenerazione dei neuroni in un’area chiamata “sostanza nera”. La dopamina regola il circuito del movimento e quando viene a mancare produce disturbi del sistema motorio, come tremore a riposo, rigidità, perdita di equilibrio, lentezza nel parlare. Il problema è che quando si manifestano questi sintomi la sostanza nera ha già perso il 60% dei neuroni e la dopamina è scesa del 20% rispetto ai livelli normali: la malattia viene diagnosticata quando è già praticamente in fase avanzata. Ma il fattore “tempo” nel Parkinson è fondamentale: il trattamento farmacologico con agonisti o precursori della dopamina comporta dei benefici e migliora la qualità di vita dei pazienti solo nelle prime fasi della malattia, e perde di efficacia con il tempo.
Man mano che la malattia progredisce, infatti, la terapia diventa sempre più complessa e compaiono anche sintomi aggiuntivi non motori (disturbi psichiatrici, depressione, demenza) non responsivi ai farmaci. Le uniche terapie che si spingono oltre il trattamento dei sintomi, mirando alle cause e ai meccanismi di azione, sono quelle cellulari e geniche, che potrebbero avere un potenziale immenso ma sono ancora nelle prime fasi di sperimentazione clinica.
Una diagnosi più precoce possibile permetterebbe di iniziare il trattamento nelle primissime fasi della malattia o addirittura prima ancora della comparsa dei sintomi. Un compito quasi impossibile, anche per il migliore dei medici, ma è proprio al limite delle nostre possibilità che entra in gioco l’intelligenza artificiale. Non solo i sistemi di AI possono fare diagnosi con affidabilità paragonabile ai medici, ma addirittura con anni di anticipo rispetto alla manifestazione dei sintomi.
L’AI PER INDIVIDUARE LA FIRMA METABOLICA DELLA MALATTIA
Il primo studio, pubblicato a maggio su ACS Central Science dai ricercatori della Boston University School of Medicine (Stati Uniti) e della University of South Wales di Sidney (Australia), ha combinato il machine learning (o apprendimento automatico) con la metabolomica, ossia lo studio dei composti chimici del metabolismo.
Esistono differenze nella qualità e quantità dei metaboliti nel sangue di pazienti e individui sani, che potrebbero manifestarsi anche anni prima della comparsa dei sintomi. Ma bisogna sapere cosa cercare: l’obiettivo dello studio è stato di identificare una “firma metabolica” della malattia, cioè un insieme di composti chimici potenzialmente in grado di predire il Parkinson o piuttosto di proteggere da esso. L’AI utilizzata dai ricercatori si chiama “CRANK-MS: Classification and Ranking Analysis using Neural network generates Knowledge from Mass Spectrometry”: in associazione con la spettrometria di massa, una tecnica analitica che permette di identificare sostanze chimiche, può individuare schemi di interazione tra centinaia di migliaia di metaboliti.
I ricercatori hanno analizzato dei campioni di sangue raccolti tra il 1993 e il 1996 in maniera casuale tra la popolazione spagnola. La maggior parte degli individui erano donatori di sangue e tutti erano “in salute” al momento del prelievo. Alcuni di loro, nei 15 anni successivi, hanno sviluppato il Parkinson. Il confronto tra i livelli di metaboliti nel plasma di 39 persone colpite dalla malattia con quelli di altre 39 rimaste sane ha permesso di individuare delle differenze potenzialmente significative tra i due gruppi. Le persone che hanno sviluppato il Parkinson, ad esempio, già diversi anni prima presentavano livelli più bassi di triterpenoidi, che hanno proprietà antiossidanti e antiinfiammatorie, e livelli più alti di sostanze alchiliche perfluorate (PFAS), ampiamente utilizzate nell’industria chimica e persistenti nell’ambiente e nell’organismo. Anche se lo studio è stato condotto su pochi partecipanti i risultati sono promettenti: CRANCK-MS ha predetto il rischio di sviluppare il Parkinson con una accuratezza del 96%.
REGISTRARE I PRIMI SINTOMI CON UNO SMARTWATCH
Il secondo studio è stato pubblicato questo mese su Nature Medicine dai ricercatori del Dementia Research Institute e dell’università di Cardiff (Gran Bretagna). In questo caso l’obiettivo è stato leggermente diverso e consiste nell’identificare manifestazioni cliniche non specifiche associate a un rischio maggiore di sviluppare la malattia: movimenti più lenti durante l’attività fisica e soprattutto una ridotta qualità e durata del sonno sono le più frequenti. Il disturbo comportamentale durante il sonno REM, ad esempio, caratterizzato da comportamenti violenti durante il sonno come urlare, scalciare e tirare pugni è associato alla comparsa del Parkinson entro 10-12 anni nel 60% dei pazienti.
La maggior parte di questi primi “sintomi” sono veramente aspecifici e passano spesso inosservati. Ma un aiuto può arrivare dalla tecnologia: oggi sempre più persone usano dispositivi “wearable” per monitorare la salute e parametri come il battito cardiaco o la qualità del sonno. Nel 2016 i ricercatori hanno fornito a più di 100.000 persone uno smartwatch e hanno analizzato i dati raccolti dopo 7 giorni di utilizzo del dispositivo wearable. All’inizio dello studio, 273 persone avevano già una diagnosi di Parkinson, ma negli anni successivi la malattia è stata diagnosticata ad altre 196 persone. L’insieme dei dati raccolti ha permesso di istruire un modello di AI, che è stato in grado di individuare i segni precoci del Parkinson nei soggetti colpiti rispetto a oltre 40.000 persone del controllo sano.
Lo studio ha dimostrato che le prime manifestazione cliniche, impercettibili per un occhio umano ma rilevabili dalle tecnologie contenute negli smartwatch, compaiono anche 7 anni prima della diagnosi. È bene specificare che gli smartwatch non costituiscono uno strumento diagnostico, ma potrebbero in futuro essere uno strumento di screening, in quanto possono individuare le persone a rischio di sviluppare la patologia, indirizzandole verso controlli più approfonditi.