Dalla robotica alla stampa 3D, dalla biologia sintetica alla realtà virtuale, dall’ingegneria biomedica alle nanotecnologie: l’evoluzione della medicina è, e sarà, strettamente legata alle tecnologie all’avanguardia. La combinazione di discipline quali anatomia, biologia molecolare, chimica, ingegneria, meccanica, elettronica (e non solo) permetterà di fare un ulteriore passo avanti. Parliamo di dispositivi medici in grado di migliorare la qualità della vita dei pazienti, di rendere meno invasive le pratiche chirurgiche, di aumentare l’aderenza alle terapie, di semplificare alcune procedure complesse e di facilitare la diagnosi.
Facendo un immaginario salto indietro a fine ‘800, con l’introduzione dell’elettricità e dei raggi X inizia l’era della diagnostica per immagini, fino ad allora sconosciuta. Negli anni ’30 del Novecento viene inventata la tomografia e, 50 anni più tardi, questa tecnica incontra l’informatica e dà origine alla tomografia assiale computerizzata (TAC). Negli ultimi decenni si sono aggiunte la risonanza magnetica nucleare (RMN), la tomografia a emissione di positroni (PET), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT). Oggi l’intelligenza artificiale è in grado di fornire una prima diagnosi “guardando” una di queste immagini. Questo è solo un esempio. La velocità con cui la tecnologia sta rivoluzionando la medicina è sempre maggiore e la tecnologia è la forza trainante di questo processo.
Sono stati creati dei mini-organi per la sperimentazione diretta sulle cellule umane, si stanno studiando gli xenotrapianti, i robot hanno già trovato il loro posto in chirurgia e stanno evolvendo ancora, la stampa 3D utilizza tessuti biocompatibili per essere applicata in medicina, i dispositivi si fanno più piccoli e precisi, migliorando la chirurgia e la riabilitazione. Il progresso scientifico-tecnologico ha il piede sull’acceleratore e rende fattibili procedimenti che fino a qualche anno fa sembravano impossibili. Scienza e tecnica devono essere strumento dell’uomo, un aiuto e un supporto, senza però rischiare di sostituire le sue competenze uniche, come ad esempio quelle socio-emozionali. L’obiettivo è utilizzarle al meglio delle nostre capacità, per trarne il maggior numero di benefici.
I braccialetti per contare i battiti cardiaci o il numero dei passi sono solo alcuni dei sensori indossabili che hanno riscosso un grande successo anche tra i non amanti del fitness. La stessa tecnologia ha ispirato un team di ricercatori dell’università di Singapore, che hanno realizzato un biosensore lungo quanto un dito che si "indossa" sulle ferite per rilevare la presenza di batteri, quando ancora l’infezione non è visibile a occhio nudo. L’attività enzimatica degli eventuali batteri modifica la conduttività di un idrogel a base di DNA, producendo un segnale che viene inviato via wireless a uno smartphone. Il sistema potrebbe rendere più facile e veloce il monitoraggio di una ferita, anche da parte dei pazienti stessi. Lo studio che ha descritto questo innovativo biosensore è stato pubblicato lo scorso novembre su Science Advances.
Fondamentale per la protezione del tessuto cerebrale, la barriera emato-encefalica è anche un ostacolo all’ingresso della maggior parte dei farmaci nel cervello e quindi al successo di una terapia. Un team di ingegneri dell’università del Texas ha ideato una nuova tecnica a bersaglio molecolare per aumentare la permeabilità della barriera in modo reversibile e senza danni permanenti. Ad aprire le porte del cervello sono delle nanoparticelle di oro: attivate da un laser, producono una piccola forza meccanica, sufficiente ad allentare le giunzioni che tengono insieme la barriera. I ricercatori hanno usato questa strategia per veicolare nel tessuto cerebrale anticorpi e vettori per i farmaci o la terapia genica. I risultati sono pubblicati su Nano Letters.
“Costruire molecole è un'arte difficile. Benjamin List e David Macmillan sono stati insigniti del Premio Nobel per la chimica 2021 per lo sviluppo di un nuovo e preciso strumento per la costruzione molecolare: l'organocatalisi. Questo ha avuto un grande impatto sulla ricerca farmaceutica e ha reso la chimica più green”. Con questa motivazione, lo scorso 6 ottobre l'Accademia delle Scienze di Stoccolma ha premiato Benjamin List, direttore del Max-Planck-Institut für Kohlenforschung di Mülheim an der Ruhr (Germania) e David W.C. MacMillan, professore all'Università di Princeton (USA) per aver ideato un “ingegnoso metodo per produrre molecole”. Negli ultimi anni, infatti, l’organocatalisi asimmetrica ha dimostrato la sua applicabilità in diversi settori industriali, a cominciare dalla produzione di farmaci.
Nel 2010 la rivista Science pubblicò un lavoro di Craig Venter - noto per la sua competizione nell’ambito del sequenziamento del genoma umano - che annunciava la creazione della prima cellula sintetica. Quattro anni dopo su Nature uscì un articolo, firmato dagli scienziati Romesberg e Malyshev, che descriveva la creazione di un DNA modificato a cui era stata aggiunta una nuova coppia di basi azotate oltre alle quattro classiche che contribuiscono alla formazione dei legami della doppia elica. Ora, la creazione di una cellula sintetica in grado di replicare il trasporto attivo è una straordinaria innovazione figlia di questo filone. Ma con applicazioni pratiche potenzialmente molto più concrete.
Un pacemaker temporaneo serve solo per il tempo necessario a gestire un problema transitorio al cuore. Ma l’impianto e la rimozione possono danneggiare il tessuto cardiaco. Per ridurre il rischio di complicanze o infezioni, un gruppo di ricerca statunitense ha realizzato il primo pacemaker biodegradabile, che viene riassorbito dall’organismo dopo qualche settimana. Il dispositivo, descritto a fine giugno su Nature Biotechnology, è più piccolo e meno invasivo rispetto ai pacemaker tradizionali: funziona senza cavi o batterie, grazie a una rete wireless. Testato con successo sugli animali, in futuro potrebbe aiutare i pazienti dopo un intervento al cuore o un infarto, e poi dissolversi spontaneamente, senza bisogno di estrazione chirurgica.
Un neo sospetto, un eritema, una strana macchiolina: le malattie della pelle sono tante e non sempre facili da distinguere per un occhio non esperto. Eppure, complici le lunghe attese per una visita specialistica, ogni anno sono quasi 10 miliardi le ricerche su Google dedicate ai problemi dermatologici. Per aiutare i pazienti, ma anche i medici, Google ha sviluppato un sistema di “deep learning” (DLS) che riconosce le 26 più comuni alterazioni o malattie della pelle usando la fotocamera di uno smartphone. Il sistema, marcato CE dalla Comunità Europea, ha un’accuratezza paragonabile a quella dei dermatologi, e superiore a quella dei medici non specialisti, ed è in grado di eseguire anche diagnosi differenziali tra malattie visivamente simili. Uno studio, pubblicato su Nature Medicine, ha evidenziato le potenzialità del DLS in ambito dermatologico.
a cura di Anna Meldolesi
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