Una bambina con una rara malattia genetica ereditaria è in buona salute e libera dai sintomi grazie alla terapia che le è stata somministrata prima di nascere, nell’utero materno
È una storia triste, ma con un lieto fine, quella di una famiglia pakistana che ha perso due dei suoi bambini a causa di raro difetto enzimatico ereditario. Ma la terza figlia, che ha lo stesso difetto genetico, è viva e in buona salute. Ayla ha già compiuto 16 mesi e non presenta i sintomi cardiaci e muscolari che si manifestano sin dalla vita fetale, e che sono fatali per la maggior parte dei bambini entro i due anni di vita. A cambiare un destino che sembrava già scritto, è stata una procedura sperimentale promossa dall’ospedale di Ottawa, in Canada, con la collaborazione dell’Università della California a San Francisco. I medici hanno somministrato ad Ayla l’enzima mancante attraverso la vena ombelicale, quando era ancora un feto nell’utero materno. Il caso, primo nel suo genere, è stato recentemente pubblicato su The New England of Medicine.
La glicogenosi di tipo 2, nota anche come malattia di Pompe, è la rara malattia da accumulo lisosomiale che ha colpito la famiglia di Ayla, uccidendo i primi due figli della coppia pochi mesi dopo la nascita. A causa del difetto di un enzima, la alfa-glucosidasi acida, la cellula non riesce più a smaltire il glicogeno, che rappresenta la forma di deposito e di riserva del glucosio negli animali. Il glicogeno in eccesso si accumula nei lisosomi, vescicole cellulari deputate alla “digestione” dei materiali, danneggiando il cuore, i muscoli di gambe e braccia e anche quelli della respirazione. I neonati affetti da questa patologia – circa 1 su 140.000 – muoiono generalmente entro i primi due anni di vita per insufficienza cardiaca. Nel mondo sono circa 10.000 e in Italia almeno 300.
Anche Ayla, come i suoi fratelli affetti dalla Pompe, ha ereditato dai genitori il gene difettoso che causa la malattia. Per il primo fratello, la diagnosi è arrivata a cinque mesi e mezzo. In questi casi il neonato inizia subito la terapia, cioè gli viene somministrato l’enzima mancante, che può rallentare la progressione dei sintomi. Ma anche con una diagnosi precoce, l’esito può essere fatale, poiché i sintomi si manifestano già a partire dalla vita fetale: spesso i bambini nascono con un cuore danneggiato, che non riesce a pompare adeguatamente il sangue ai tessuti. Nonostante la terapia, infatti, il piccolo paziente è morto a poco più di due anni. Dopo una seconda gravidanza terminata precocemente, la coppia ha avuto un secondo figlio, con la malattia diagnosticata addirittura prima della nascita con l’amniocentesi. Dopo soli 8 mesi di cure palliative, però, anche questo bambino è deceduto per collasso cardiorespiratorio.
Il destino di Ayla, invece, è stato diverso. La bimba ha iniziato una terapia enzimatica sostitutiva (ERT) – ovvero la somministrazione di alfa-glucosidasi acida ricombinante per compensare l’enzima naturale mancante - ancora prima di venire al mondo, quando era solo un feto nell’utero della sua mamma. Grazie alla diagnosi prenatale, i genitori di Ayla hanno saputo subito che anche questa figlia era affetta dalla malattia di Pompe. La loro storia ha accelerato il percorso diagnostico e ha anche permesso di iniziare subito il trattamento. La diagnosi prenatale, infatti, non predice né modifica l’esito della malattia, che potrebbe essere scoperta quando gli organi del feto sono già irreparabilmente danneggiati. Spesso per queste patologie l’unica opzione è iniziare a trattare il paziente prima che manifesti i sintomi, cioè quando è ancora nell’utero materno.
Comparse sulla scena solo da pochi anni, le terapie in utero hanno un enorme potenziale: permettono di correggere eventuali difetti ereditari direttamente nel feto, così i bambini che nasceranno non avranno i sintomi della malattia. In Germania, una decina di anni fa, tre feti affetti da displasia ectodermica ipoidrotica legata all'X sono stati curati somministrando la proteina mancante direttamente nel liquido amniotico. I bambini oggi hanno circa dieci anni e quasi nessun sintomo riconducibile alla malattia. Si moltiplicano anche gli studi sui modelli animali che vorrebbero portare in clinica strategie rivoluzionarie di terapia genica o cellulare in utero.
All’ospedale di Ottawa, in Canada, la 37enne di origine pakistana madre di Ayla si è sottoposta a una procedura sperimentale per le malattie da accumulo lisosomiale, che consisteva nell’infusione dell’enzima mancante direttamente in utero, prima dell’insorgenza dei sintomi nel feto. Una corsa contro il tempo, in piena ondata COVID, che è stata possibile solo grazie all’incontro e alla collaborazione tra una rete di medici e ricercatori dell’ospedale di Ottawa e dell’Università della California, San Francisco (UCSF). La prima infusione alla 24esima settimana di gestazione, è stata seguita da altre cinque, ogni due settimane, fino alle 34esima settimana. Le infusioni sono avvenute attraverso la vena ombelicale, una via che già viene usata, ad esempio, per le trasfusioni di sangue al feto nei casi di anemia.
Appena quattro giorni dopo la nascita, Ayla ha ripreso la terapia con l’alfa-glucosidasi acida, che le viene somministrata ogni settimana da quando è nata. La bambina non produce anticorpi contro l’enzima, cioè il suo sistema immunitario non respinge il trattamento, probabilmente perché l’ha già incontrata durante la vita fetale e questo ha generato una “tolleranza immunologica”. La risposta immunitaria contro l’enzima è invece causa di effetti collaterali anche gravi nei bambini che iniziano la terapia dopo la nascita.
Oggi Ayla ha 16 mesi: è in buona salute, ha un cuore forte e conduce una vita normale, senza i sintomi della Pompe. Il tono e la forza muscolare sono paragonabili a quelli dei bambini della sua età, mentre i fratelli già nei primi mesi di vita manifestavano i segni clinici della malattia: ipotonia muscolare, scarso controllo della testa e ipertrofia del muscolo cardiaco. Anche i parametri biochimici sono normali, come la creatina chinasi che è un marcatore di danno muscolare e, dalla nascita fino ad oggi, è sempre rimasto nella norma. Grazie alla terapia in utero, Ayla ha raggiunto nei tempi giusti le tappe fondamentali della crescita: a 7 mesi era in grado di rotolare e mettersi a sedere; a 10 mesi ha iniziato a gattonare e a mettersi in ginocchio; a 11 mesi e mezzo ha imparato a camminare. Ha ancora bisogno della terapia sostitutiva, e i medici continueranno a monitorarla, ma quando è nata il suo cuore era sano e lo è tutt’oggi.
“Il caso di Ayla - scrivono i ricercatori - espande il repertorio delle terapie fetali e rappresenta una speranza per tutti i bambini, e per le loro famiglie, con patologie simili”.