terapie avanzate, manifattura, Maria Luisa Nolli

La culla di una nuova terapia avanzata è un sistema di ambienti in diversa classe di sterilità, tutti ben collegati tra loro. Ma la sfida per il domani sono le unità mobili

Le terapie avanzate - o ATMP, secondo l’acronimo con cui ci siamo oramai abituati a conoscerle - stanno esaudendo una promessa che da tempo la medicina ha fatto al genere umano: curare le malattie alla radice. In tal senso l’innovazione tecnologica in esse racchiusa corre il rischio di passare in secondo piano rispetto allo scopo per cui esse sono state concepite. Riuscire a farsi un quadro di come nasca una terapia avanzata serve a comprenderne meglio il valore e, nel raffronto con i farmaci tradizionali, ad afferrarne le enormi potenzialità d’uso. Insieme alla prof.ssa Maria Luisa Nolli, membro del Board di Assobiotec ed EuropaBio e docente di Biotecnologie Avanzate all’Università di Pavia, abbiamo cercato di ricostruire lo schema di base di una classica officina produttiva, esplorando nel contempo le possibilità messe sul piatto dai nuovi “impianti chiusi”.

LE SFIDE DELLA MANIFATTURA

Il processo produttivo di una terapia avanzata per uso clinico deve conformarsi alle norme delle buone pratiche di fabbricazione (GMP, Good Manufacturing Practices), in modo tale da determinare con precisione le modalità di produzione e controllo dei preparati cellulari, dalla raccolta e manipolazione delle materie prime fino alla lavorazione dei prodotti intermedi, ai controlli di qualità, allo stoccaggio, all’etichettatura e, infine, al confezionamento del prodotto finito e alla somministrazione al paziente”, precisa Nolli. “Tutto ciò pone ai produttori ardue sfide logistiche e tecniche, specie se queste fasi avvengono in un’officina produttiva posta in una struttura differente e lontana da quella in cui è ricoverato il paziente”.

È il caso delle terapie a base di cellule CAR-T, prodotte da materiale biologico prelevato dal paziente: nello specifico si tratta di una raccolta dei linfociti T da spedire alle officine produttive per esser ingegnerizzati geneticamente e, subito dopo, restituiti al paziente in attesa dell’infusione. Tali passaggi operativi richiedono tempo - che spesso il malato in gravi condizioni non ha - e denaro. Perciò, l’obiettivo di tecnici e bioingegneri è di cercare soluzioni per ottimizzare le strutture e i conseguenti protocolli di produzione.

Le terapie avanzate sono a tutti gli effetti dei farmaci ma, a differenza di quelli tradizionali, esse nascono a partire dalle cellule del paziente a cui sono destinate e ne costituiscono il prodotto finale”, chiarisce Nolli. “Per tale ragione non possono essere sterilizzate, pena la perdita delle cellule medesime. Ecco perché in riferimento alle ATMP siamo soliti dire che ‘il prodotto è il processo e il processo è il prodotto”. La fase manifatturiera è dunque il nocciolo delle terapie avanzate.

ASSICURARE LA STERILITÀ DEL PRODOTTO

Visto che il prodotto da somministrare al malato non può essere sterilizzato terminalmente, occorre agire a monte, cioè sul processo di produzione, facendo in modo che sia il più robusto possibile e mettendo in atto le attività necessarie a verificare che la terapia avanzata prodotta sia verosimilmente sterile e possa essere somministrata al malato. Ma come si può essere certi che il frutto di tutte queste fasi di lavoro non sia contaminato? “Esistono diverse vie per assicurare la sterilità di una terapia avanzata”, precisa Nolli. “Innanzitutto, i test che si eseguono sia sul processo che sul prodotto finito. Poi c’è quello che viene chiamato ‘Media fill’, cioè la simulazione del processo produttivo in terreni per coltura batterica: se al termine del processo non c’è traccia di colonie batteriche o fungine, si può dire che il processo soddisfi i parametri di qualità”.

Gli enti regolatori europei sono estremamente severi nella valutazione microbiologica dei processi e impongono ai produttori di ripetere questo test più volte, specialmente quando si effettuano cambiamenti nella procedura di preparazione del farmaco. “Un altro modo per garantire la sterilità è quello di eseguire la conta particellare all’interno delle stanze dove avviene la produzione”, riprende Nolli. “Questo test si effettua prelevando campioni di aria e analizzando le pareti, i soffitti, il pavimento e gli operatori stessi che lavorano su una terapia avanzata, dal momento che anch’essi potrebbero costituire veicolo di inquinamento. Infine, non bisogna dimenticare l’assoluta importanza della formazione rivolta al personale, il quale deve essere continuamente formato e aggiornato e conscio delle regole da rispettare”.

SISTEMI APERTI E SISTEMI CHIUSI

L’insieme dei test appena descritti costituisce un’assicurazione di sterilità ma dove avviene fisicamente la produzione di una terapia avanzata? “La classificazione dei locali adibiti alla produzione di ATMP dipende dal tipo di operazioni che si svolgono al loro interno”, puntualizza Nolli. “In questo senso si usa una scala che, dal grado D al grado A, riassume tutti i livelli di sterilità: le stanze di grado D sono quelle in cui si svolgono le fasi meno critiche di una produzione sterile, quelle di grado C (a cui si accede solo dalle precedenti) richiedono una maggiore qualità microbiologica e particellare dell’aria e delle superfici. Ugualmente i criteri di qualità particellare e microbiologica si innalzano nelle stanze di grado B, fino ad arrivare a quelle di grado A dove si eseguono le mansioni ad alto rischio che richiedono un livello assoluto di asepsi, grazie anche al mantenimento di flusso d’aria laminare omogeneo nell’ambiente di lavoro”.

Perciò, con la dicitura “sistema aperto” si fa riferimento all’architettura di una cell factory destinata alla produzione delle ATMP, composta dalla combinazione di ambienti associati a ognuno di questi livelli di sterilità: si tratta di aree ad elevato consumo di energia e richiedenti un notevole investimento di risorse. Per tale motivo hanno anche costi di allestimento e gestione decisamente elevati. Al contrario, i “sistemi chiusi” sono quelli nei quali il materiale biologico è “fisicamente” separato dall’operatore che su di esso lavora. “Parliamo dei cosiddetti isolatori o bioreattori equiparabili a stanze di grado A grazie al livello di sterilità che raggiungono. La differenza è che questi isolatori possono trovare collocazione all’interno di ambienti di grado B, C oppure D”, precisa l’esperta. “I sistemi chiusi rappresentano la vera innovazione nel campo della produzione delle ATMP, permettendo così di abbassare i costi dei processi produttivi e, in ultima analisi, dei prodotti finiti”.

Un esempio di questo genere di strumenti è il CliniMACS Prodigy, in grado di compiere in maniera automatica tutti i passaggi necessari alla produzione di una terapia avanzata. “I sistemi chiusi permetteranno l’allestimento di unità mobili che, rispetto agli impianti fissi, garantiranno un notevole risparmio in termini di energia e costi di mantenimento”, afferma Nolli. “L’aspetto cruciale rimane quello di rispettare la classe di sterilità degli ambienti, stabilita dalle GMP, ma questo è un modo rivoluzionario di produrre trattamenti che non hanno precedenti nella storia delle medicina”.

LA PRODUZIONE OSPEDALIERA

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Clinical Chemistry, i ricercatori della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania (Stati Uniti) hanno confrontato differenti tecnologie per la produzione di terapie cellulari in ambiente ospedaliero appurando che, sebbene le piattaforme differiscano tra loro, tutte sono progettate per collegare più fasi di produzione riducendo al minimo i costi di produzione. Sistemi chiusi come il CliniMACS Prodigy potranno gestire la selezione del materiale, la fase di coltura e il controllo di qualità delle cellule, in un processo composto da molteplici stadi, ognuno dei quali strettamente controllato e automatizzato: la domanda di sistemi come questo è destinata ad aumentare non solo per il risparmio di energia e risorse ma anche per l’ottimizzazione nell’accesso delle terapie cellulari ai pazienti. 

La produzione di ATMP in ambiente ospedaliero sta aumentando ma non è un passaggio semplice da effettuare”, dichiara Nolli. “La vera sfida è organizzare la fase manifatturiera con un’appropriata analisi del rischio e ottemperare all’obiettivo di infondere prodotti sterili al paziente. Ecco che la manifattura è uno dei passaggi su cui agire per risparmiare e, grazie ai sistemi chiusi, si potranno ipotizzare progetti nei quali la fase produttiva sarà molto vicina a quella di utilizzo clinico”. Alcune realtà all’avanguardia hanno già adottato questi sistemi e negli anni a venire è attesa una maggior diffusione della tecnologia dei bioreattori e degli isolatori che potrebbero costituire un sostanziale beneficio per vari reparti, come le farmacie ospedaliere.

“Accanto alla rivoluzione del prodotto assistiamo a una rivoluzione di produzione”, conclude Nolli. “E, nel caso dei sistemi di produzione, essa non si fermerà ai bioreattori ma riguarderà il disegno degli impianti manifatturieri, pensati sempre più a misura di questi farmaci e capaci di sfruttare il potenziale dei sistemi chiusi, con unità mobili per portare al letto dei malati prodotti di altissima qualità in tempi molto rapidi”.

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