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Lo sviluppo scientifico della “scienza degli embrioni” procede veloce e la sua regolamentazione deve trovare il modo di tenere il passo. Quali saranno le regole?

Alla fine del 2018 He Jiankui ha gettato un’ombra sul mondo scientifico dichiarando di aver modificato con CRISPR i genomi di tre embrioni umani con l'obiettivo di renderli resistenti all'infezione da HIV. Tre bambini in carne e ossa, i primi in cui un gene è stato ritoccato dalle ormai famose forbici molecolari, che sono costati al ricercatore cinese altrettanti anni di carcere per aver violato la legge, oltre a essere stato aspramente criticato dalla comunità scientifica. Da allora si sono susseguiti eventi e scoperte che hanno contribuito a far avanzare il settore, ma le autorità regolatorie fanno fatica a muoversi alla stessa velocità della ricerca. Un articolo pubblicato a maggio su Nature ha affrontato la questione: assicurarsi che la scienza sia regolamentata in modo tempestivo ed efficace significa mantenere un solido contratto sociale tra scienza e società.

Facendo un salto indietro di quasi 50 anni, si può tornare al momento in cui – il 25 luglio 1978 - nacque Louise Brown: la prima bambina “in provetta”, cioè concepita in vitro. Il risultato fu possibile grazie al lavoro del biologo Robert Edwards e del ginecologo Patrick Septoe, Edwards fu successivamente premiato con il Nobel per la Medicina nel 2010, mentre Septoe morì nel 1994. Un momento importante nella storia della medicina in generale, e dell’embriologia in particolare, che nel giro di poco tempo ha cambiato la percezione e la gestione dei problemi legati all’infertilità. La scienza ha poi fatto dei passi in più e oggi è possibile far nascere bambini sani da coppie portatrici di malattie genetiche ereditarie, come la fibrosi cistica o l’emofilia, grazie alla diagnosi preimpianto. Sebbene i benefici siano evidenti, non sono mai mancate – ne mancano tuttora – i dibattiti sull’argomento. Una tra tutte riguarda l’utilizzo degli embrioni sovrannumerari, cioè quegli embrioni che vengono prodotti in vitro per effettuare la procedura di fecondazione assistita, ma che non vengono impiantati in utero. Attualmente in Italia non è possibile donare gli embrioni non utilizzati alla ricerca e la legge impone la loro conservazione in eterno, con tutto ciò che ne consegue (ad esempio: strutture, costi, personale per la gestione).

Come raccontato nell’articolo di Nature, nel 1984 la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA) inglese ha raccomandato un limite di 14 giorni dalla fecondazione per la ricerca sugli embrioni: una restrizione temporale apparsa per la prima volta in un documento nel 1979, diventata legge nel 1990 nel Regno Unito e poi adottata anche da altri Paesi. Anche l’International Society for Stem Cell Research (ISSCR) ha adottato questo limite nelle sue linee guida, fino al 2021, quando ha proposto di allentare la restrizione in alcune circostanze in risposta alla nuova capacità dei ricercatori di far crescere gli embrioni fino a tale limite  e tenendo conto delle informazioni potenzialmente utili che si potrebbero ottenere superandolo. L’ISSCR, così come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sconsiglia l’utilizzo dell’editing genomico per alterare il DNA negli embrioni umani – dato che le modifiche sarebbero ereditabili - almeno fino a quando non saranno chiariti tutti i dubbi sulla sicurezza e gli effetti a lungo termine. Questi due enti non hanno però potere giuridico: benché la maggior parte degli scienziati rispetti queste linee guida, ciascun Paese deve poi prendersi in carico la gestione della questione giuridica.

Al terzo Summit Internazionale sull’editing del genoma umano, che si è svolto a Londra a inizio marzo, sono stati presentati i risultati di diversi studi su embrioni e altri sull’editing, segnale che la ricerca in questi ambiti è molto attiva. Dai topi nati a partire da cellule di due topi maschi adulti all’utilizzo del “taglia e cuci” molecolare per correggere il codice genetico delle cellule del sangue come terapia per l’anemia falciforme, le novità nel settore sono sempre di più e i risultati si consolidano anno dopo anno. In questa occasione, la maggior parte degli scienziati si è espressa favorevolmente sul fatto che CRISPR e altre tecniche che modificano in modo permanente il DNA possano essere utilizzate sulle cellule somatiche – in modo che non siano ereditabili dalla progenie – oppure sugli embrioni ma limitatamente alla ricerca di base, per comprendere i meccanismi dello sviluppo.

Nel giro di pochi anni si sono quindi susseguite una serie di scoperte che hanno dato una scossa al settore e questo processo non pare rallentare, anzi. La prima terapia a base di CRISPR potrebbe essere approvata in tempi brevi in Europa e, pur restando lontana dagli embrioni, le sperimentazioni che riguardano l’editing genomico sono decine. Se la velocità a cui si muove la scienza è sostenuta, la normativa è spesso statica e lenta a cambiare. Questo potrebbe limitare lo sviluppo scientifico anche in caso di eventuali grandi benefici ma, dall’altra parte, potrebbe imporre un inevitabile lasso di tempo extra per valutare le tecnologie che tanto velocemente si fanno spazio nei laboratori di ricerca di tutto il mondo. Una delle proposte che si leggono nell’articolo è quella di chiedere un’opinione a chi potrebbe trarre beneficio da queste innovazioni: i pazienti dovrebbero essere consultati, anche se inevitabilmente la loro percezione dei rischi sarà influenzata dalla gravità della patologia di cui soffrono. Un confronto tra regolatorio e opinione pubblica è anch’esso fondamentale? E poi, è davvero così problematico avere un processo deliberativo lento? Sono molti i bioeticisti che si interrogano su queste tematiche e le risposte non sono univoche e definitive: l’importante è vigilare affinché non vengano superati certi limiti considerati rischiosi per la salute umana o eticamente problematici.

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