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prof. Gilberto Corbellini

Possono servire ad arrivare più in fretta alla fase di commercializzazione ma sollevano importanti implicazioni bioetiche. Lo spiega il prof. Gilberto Corbellini (Roma)

Forse qualcuno ricorda la storia di Jesse Gelsinger, un diciottenne americano che nel 1999 si offrì volontario per una sperimentazione sugli effetti della terapia genica per la cura del deficit di ornitina transcarbamilasi. A quel tempo i Comitati Etici erano molto più severi circa la partecipazione di bambini e giovani, e Jesse - che soffriva di una forma lieve della patologia - si fece avanti e fu inserito nel primo studio clinico per la nuova terapia genica. Studio che gli fu fatale. Tutto questo riporta alla mente quanto sta accadendo oggi nel percorso di sviluppo di un vaccino contro il virus SARS-CoV-2 dal momento che sono migliaia le persone nel mondo che si stanno offrendo volontarie per gli studi clinici.

Purtroppo, la storia di Gelsinger non ha avuto un lieto fine perché il ragazzo fu vittima di un effetto collaterale: la risposta immunitaria innescata dal vettore virale che la terapia sfruttava per veicolare il gene che avrebbe potuto curare la sua patologia. Questo episodio segnò una drastica battuta di arresto agli studi sulla terapia genica negli Stati Uniti e aleggia sopra la testa di tutti coloro che svolgono trial clinici per nuovi farmaci. Specie quando si parla degli “human challenge studies”, ovvero degli studi di infezione umana controllata, nei quali ai volontari sani si somministra un vaccino - come avviene nel caso dei trial per i vaccini contro il nuovo Coronavirus - e poi si inocula il patogeno per vedere se la malattia si ripresenta o se il candidato vaccino ha svolto la sua funzione di stimolare il sistema immunitario.

HUMAN CHALLENGE STUDIES

“Questa tipologia di studi si sviluppa con l’obiettivo di arrivare in tempi più brevi, e anche sulla base di elementi conoscitivi più ampi e più comparativi, alla commercializzazione del vaccino e quindi alla comprensione dei suoi effetti”, spiega il prof. Gilberto Corbellini, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. “Essi consentono di ottenere subito risposte che in Fase III solitamente richiedono settimane o mesi, fornendo risultati su come il vaccino si comporterà quando sarà distribuito e somministrato alla popolazione”. In uno scenario come quello che stiamo vivendo, in cui la medicina sta letteralmente rincorrendo la diffusione del virus, un vaccino può rappresentare un’indubbia occasione di sorpasso ma, come è ormai noto, le tempistiche di sviluppo di questa classe di farmaci sono lunghe. Ed ecco che attraverso gli “human challenge studies” si crea l’occasione di studiare in profondità l’efficacia di un vaccino e i meccanismi della risposta immunitaria. In tempi brevi.

Sono una cinquantina i vaccini attualmente in sperimentazione contro il virus SARS-CoV-2 e alcuni, come quello prodotto da AstraZeneca e sviluppato dall’Università di Oxford in collaborazione con l’IRBM di Pomezia, sfruttano i vettori virali per veicolare all’interno dell’organismo un gene in grado di innescare il processo di immunizzazione contro il virus SARS-CoV-2. Il loro successo - è della settimana scorsa la notizia che il vaccino di AstraZeneca produce una risposta immunitaria sostenuta anche nei pazienti anziani - giunge anche grazie a questa tipologia di studi, che necessita di essere descritta in maniera cristallina.

TRA DUBBI E REALTA’

Infatti, una parte del mondo accademico dubita che gli “human challenge studies” possano essere efficaci, specialmente perché i volontari arruolati rientrano in una fascia d’età giovane e diversa da quella considerata a maggior rischio di subire i colpi più duri del COVID-19. “I volontari non sono bambini e non sono persone anziane per cui la risposta al vaccino dipende da caratteristiche predefinite dalle condizioni entro cui si opera la scelta”, prosegue Corbellini. “Occorre comprendere che reazione susciterà il vaccino negli anziani e nelle fasce più deboli di popolazione. Se avessimo già indicazioni di elevata efficacia sugli asintomatici e sui pazienti che poi trasmettono con facilità la malattia, sarebbe un ottimo risultato. Ma è molto rischioso scambiare una dinamica di trasmissione completamente artificiale, con quella naturale. Gli studi osservazionali sulla popolazione devono proseguire dal momento che quello che più conta è capire come il vaccino in condizioni naturali vada a impattare su dinamiche epidemiologiche di diffusione del virus”.

Detto questo, la maggiore apertura a questo genere di studi sembra provenire proprio dalla categoria dei bioeticisti che ritengono esistano le condizioni giuste per questo tipo di sperimentazione. Il primo criterio da rispettare, e il più è importante, rimane la sicurezza dei pazienti. “Se sul piano tecnico possiamo fare quasi tutto, su quello etico-sociale bisogna essere piuttosto cauti, specialmente per l’impatto di certe sperimentazioni in relazione al rispetto delle persone”, aggiunge il professore. “La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso posizione nei riguardi degli “human challenge studies” e lo ha fatto con un documento che esplicita che tale tipologia di studi può essere condotta solo se scientificamente giustificata e nelle più estreme condizioni di sicurezza per coloro che vi si sottopongono. Occorre essere certi del loro significato stesso”. Un invito a tenere alta la guardia che, in qualche modo, ricorda che in medicina esiste sempre un margine di rischio ma è imperativo procedere con scientificità e rigore.

LASCIARSI ALLE SPALLE LA STORIA

Per questa ragione il paziente deve essere sempre informato di ogni passaggio della procedura: nel consenso informato che si firma prima di prendere parte alla sperimentazione tutto è spiegato nei minimi dettagli in modo tale che il paziente possa conoscere ciò a cui va incontro. Nulla a che vedere con la storia carica di ombre di questi studi. “Purtroppo nel lontano passato queste somministrazioni di agenti patogeni che causano malattie a dei volontari sono state fatte quando questi non erano per nulla volontari”, ricorda Corbellini. “Nel 1721, re Giorgio I per stabilire se la somministrazione del vaiolo umano proteggeva contro l’infezione naturale, fece inoculare a sei condannati a morte il vaiolo per immunizzarli e, poi, li fece legare a dei cadaveri di persone morte a causa del vaiolo per osservare se sopravvivevano. Sopravvissero tutti e fu loro condonata la pena. Un altro caso famoso è quello di Edward Jenner che, alla fine del Settecento, inoculò il virus del vaiolo vaccino in un bambino di otto anni per poi esporlo al contatto con il vaiolo umano e dimostrare come ne fosse protetto. Oggi, fortunatamente, lo scenario è completamente diverso per cui chiamare in causa l’ideologia nazista, come sta facendo una certa propaganda, è fuorviante e pericoloso”. Tuttavia, non esiste un farmaco specificamente valido contro la COVID-19 per cui questi volontari si espongono coscientemente a un rischio consistente. “Non solo per questa malattia non abbiamo un cura, ma probabilmente alcune persone sono geneticamente predisposte ad ammalarsi in forma grave e sappiamo che le infezioni da Coronavirus possono lasciare cicatrici devastanti nei polmoni di coloro che sono comunque guariti”, prosegue Corbellini. “Di quest’ultimo rischio sono informati i volontari? Senza trascurare il fatto che un pagamento di 4mila dollari confonde facilmente la percezione del rischio”.

“Qualcuno traccia un paragone con la donazione di un rene o del midollo ma si tratta di qualcosa di ben diverso”, conclude Corbellini. “Non sono in gioco motivazioni emotive come nel caso della donazione di un organo per un parente, mentre il paragone reggerebbe meglio con la vendita volontaria di un rene. Che in molti condannano, ma non io. È un tipo di altruismo sociale unidirezionale che presenta serie incertezze circa i rischi, è di discutibile utilità ed è mosso da incentivi personali poco trasparenti”.

 

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