La questione che da sempre assilla l’essere umano è se, in un modo o nell’altro, sia possibile cambiare il nostro destino. Una fine già scritta per tutti gli esseri viventi, ma di cui solo l’umanità è consapevole: infatti, la specie umana è l’unica a saper di dover morire e, proprio per questo, l’unica che ha cercato un modo per superare, o almeno aggirare, questo limite. Grazie al libro “Più in alto degli dèi – L’ingegneria genetica dell’uomo prossimo venturo” di Marco Crescenzi – dirigente di ricerca presso l’Istituto Superiore di Sanità e divulgatore - è possibile ripercorrere le tappe della storia delle biotecnologie, dalla genetica di Mendel fino all’arrivo di CRISPR, per scoprire se oggi la scienza è davvero in grado di superare quel limite.
Contrariamente all'editing genomico ex vivo - che richiede l'estrazione delle cellule del malato, la loro manipolazione in laboratorio e la successiva reinfusione - l'editing in vivo utilizza vettori virali (e non) per modificare specifiche sequenze di DNA direttamente all’interno del corpo del paziente. Questa strategia, che ha già varcato le porte degli studi clinici da diversi anni, promette di semplificare e accelerare il processo di sviluppo e somministrazione della terapia, offrendo potenzialmente una soluzione più sostenibile e, quindi, più accessibile. Una tematica che è stata affrontata lo scorso giugno nell’ambito della COST (European Cooperation in Science and Technology) Action GeneHumdi (Genome Editing for the treatment of human Disease Network).
Quando si entra nel campo della malattia di Huntington bisogna fare attenzione a dove poggiare i piedi per non sprofondare: infatti, se ogni malattia fosse un terreno da attraversare (al di là del quale c’è una terapia efficace), alcune sarebbero strade di campagna, altre delle autostrade, altre ancora un deserto. La Huntington è una palude dove perdersi è all’ordine del giorno. Ne sono consce le aziende farmaceutiche che, a mo' di esploratori, hanno inviato i loro prodotti sulla strada dello sviluppo clinico, finora senza troppo successo. Occorre perciò prudenza anche di fronte agli incoraggianti risultati preliminari ottenuti da AMT-130, una terapia su RNA sviluppata da UniQure e in valutazione con due studi clinici di Fase I/II.
Il suo caso, pubblicato sulla rivista The Lancet, potrebbe essere destinato a entrare nella storia della medicina, come il precedente di Emily Whitehead, la bambina divenuta il simbolo del successo delle terapie a base di cellule CAR-T. Mentre Emily era affetta da una grave forma di leucemia (storia raccontata nel podcast di OTA “Reshape – un viaggio nella medicina del futuro”) - indicazione per cui le CAR-T sono state approvate prima negli Stati Uniti e poi in Europa - Uresa soffre di lupus eritematoso sistemico (LES), una patologia cronica autoimmune le cui manifestazioni danneggiano tutto l’organismo. La differenza non è poca perché il caso di Uresa trascina le CAR-T in un universo parallelo a quello delle malattie oncologiche, verso un probabile trattamento di disturbi autoimmuni che interessano milioni di persone nel mondo.
a cura di Anna Meldolesi
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