Sono passati quasi quattro anni da quando su Osservatorio Terapie Avanzate abbiamo parlato di milasen: un farmaco su misura, progettato dal gruppo di ricerca guidato da Timothy Yu al Boston Children’s Hospital, per trattare una sola bambina affetta da malattia di Batten. L’approccio era basato sugli oligonucleotidi antisenso (ASO), brevi molecole di DNA o RNA a singolo filamento che interagiscono con l’RNA messaggero per correggere gli effetti di quella specifica mutazione. Lo stesso team ha recentemente ideato un’altra terapia ‘n-of-1’, cioè specifica per una persona sola, per un bambino affetto da atassia telangiectasia. Non è ancora chiaro se il farmaco si rivelerà efficace, così come era stato per milasen, ma lo sviluppo di questi trattamenti personalizzati potrebbe in futuro cambiare l’approccio nei confronti delle malattie ultra-rare, anche se sono diversi gli ostacoli da superare.
Cinque persone sono state precedentemente considerate "guarite" dall'HIV: i pazienti di Berlino, Londra, Düsseldorf, New York e City of Hope. Tutti hanno subito un trapianto di midollo osseo per trattare gravi forme di cancro, ricevendo cellule staminali da un donatore con una mutazione delta-32 su entrambe le copie del gene CCR5. Questa mutazione, infatti, è nota per bloccare l'ingresso del virus dell’immunodeficienza umana nelle cellule dell'organismo. Nel caso del paziente di Ginevra il trapianto di cellule però aveva qualcosa di diverso, perché le cellule provenivano da un donatore che non presentava la mutazione in CCR5, il che significa che l’HIV può ancora entrare nelle cellule. Come è possibile?
Capita spesso che i cambiamenti ci travolgano con una rapidità tale da lasciarci interdetti e, riepilogando la storia delle terapie a base di cellule CAR-T, si ottiene una concreta prova di questa affermazione. Nell’arco di poco più di dieci anni il loro utilizzo è stato sdoganato contro alcune forme di leucemia, linfoma e mieloma e, oggi come mai in passato, la ricerca si affida a queste rivoluzionarie forme di trattamento per trovare soluzioni contro i tumori solidi. Nel frattempo segnali di lampante interesse giungono dal loro impiego contro certe malattie autoimmuni, come dimostra un articolo pubblicato a luglio sulla rivista Lancet Neurology che descrive un particolare tipo di CAR-T “a RNA” in sperimentazione contro la miastenia grave generalizzata.
Isolare e manipolare i geni, nell’era di CRISPR e della terapia genica, può sembrare quasi scontato, ma negli anni ’60 era utopia. È stato possibile purificare e chiarire la struttura e i meccanismi di regolazione dei singoli geni grazie all’attività di ricerca di Donald D. Brown: è, infatti, il pioniere dell’isolamento genico in provetta, tecnica rivoluzionaria che ha portato alla comprensione della funzione dei singoli geni e alla documentazione delle fasi di sviluppo embrionale. Fondamentale nella ricerca, questo metodo innovativo – seguito anche da altre scoperte – ha aperto la strada alle più recenti applicazioni nell’ambito dell’ingegneria genetica e della biologia dello sviluppo. Deceduto lo scorso 31 maggio all’età di 91 anni, è stato un mentore per generazioni di biologi e il suo lavoro ha modellato la biologia moderna.
La ricerca in ambito farmaceutico è costosa e ricca di fallimenti: recenti stime riferiscono che quasi il 90% delle sperimentazioni sui farmaci non porta al risultato desiderato. L’intelligenza artificiale (AI) offrirebbe la possibilità di migliorare questo valore e, negli ultimi anni, sono diversi i farmaci progettati da un algoritmo che si muovono verso la clinica. Pur non potendo - e per fortuna - automatizzare tutto il processo, l’AI potrebbe velocizzare il processo e abbassare i costi destinati alla fase iniziale di analisi e progettazione, lasciando tempo e risorse da investire in altre ricerche. Inoltre, la tecnologia permetterebbe di capire con precisione quali pazienti potrebbero rispondere meglio al trattamento e quali no, semplificando la selezione in sede di sperimentazione clinica.
Se il rene umano ha la forma di un fagiolo, quello di una balena somiglia più a un grappolo d’uva, con tanti piccoli lobi indipendenti. Il fatto che esistano reni di questa forma è una buona notizia per la ricerca sugli organi artificiali, che un domani potrebbero aiutare a soddisfare la richiesta per i trapianti, ancora troppo alta rispetto al numero di donatori. L’anatomia dei cetacei suggerisce che tanti piccoli reni possono funzionare come due reni più grandi, ma con un vantaggio: sono più facili da produrre in laboratorio. Un team della Keck School Medicine della University of Southern California (USC), Stati Uniti, ha vinto un finanziamento di 1 milione di dollari dal Kidney Innovation Accelerator (KidneyX) per realizzare 1000 di questi mini-reni artificiali a partire da cellule staminali umane.
Website by Digitest.net