Il 20 giugno Sarepta Therapeutics, l’azienda che produce delandistrogene moxeparvovec-rokl (nome commerciale Elevidys), ha annunciato l’autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense dell’ampliamento dell’indicazione d’uso della terapia genica per la distrofia muscolare di Duchenne (DMD). Grazie a questa autorizzazione potranno essere inclusi tutti i pazienti affetti da DMD di età superiore ai 4 anni, a prescindere dallo stato di deambulazione, con l’unica esclusione dei pazienti che presentano delezioni nell’esone 8 e/o 9 del gene della distrofina. Elevidys era stata precedentemente approvata negli Stati Uniti con procedura accelerata per bambini, deambulanti, di età compresa tra i 4 e i 5 anni affetti da DMD con mutazione confermata nel gene della distrofina.
A una lettura superficiale potrebbe sembrare una notizia di quelle capaci di scuotere dalle fondamenta il castello della più promettente terapia avanzata giunta sul mercato negli ultimi anni. Numerosissimi elementi sono ancora in fase di valutazione per cui vale la regola d’oro della prudenza nelle affermazioni, soprattutto per rispetto dei tanti pazienti che hanno già ricevuto il trattamento e sono nelle fasi di monitoraggio da parte dei medici. Ma è impossibile ignorare come anche il New England Journal of Medicine, una delle più autorevoli riviste scientifiche di medicina, abbia dedicato ampio spazio all’indagine sul rischio che le terapie a base di cellule CAR-T possano essere causa dell’insorgenza di nuovi tumori nei pazienti a cui sono state somministrate. Tematica che OTA aveva già affrontato all’inizio dell’anno.
L’encefalopatia familiare con corpi d’inclusione di neuroserpina (FENIB) è una malattia neurodegenerativa rara e senza cura, dovuta all’accumulo di proteine tossiche nel cervello. A seconda della specifica mutazione che la causa può avere un esordio più o meno tardivo. Nel caso di Uditi Saraf, una ragazza indiana, i primi sintomi hanno iniziato a manifestarsi presto, a 9 anni di età. Vedendola peggiorare, i genitori hanno deciso di farne sequenziare il genoma, individuando il difetto genetico e diagnosticando la patologia. La loro corsa contro il tempo per cercare di salvare la figlia è stata raccontata in un articolo pubblicato lo scorso 12 giugno su Nature, che offre anche uno scorcio sugli sforzi dell’India per rendere più accessibili i trattamenti dell’era genomica.
Se le terapie avanzate potessero essere descritte come un gruppo coeso, magari come la nazionale di calcio o la pattuglia acrobatica italiana, ad ognuno degli elementi che le rappresenta sarebbe attribuito un ruolo definito perché in entrambi gli esempi alla base del successo si trova una fine ed elaborata forma di gerarchia. In certi settori è arduo ragionare in questa ottica ma, immaginando la terapia genica classica come il capitano della squadra e le CAR-T come un centravanti, potremmo pensare che le terapie cellulari come i linfociti T infiltranti il tumore (TIL) siano il trequartista, ovvero la figura che si colloca subito dietro l’attacco e guida il centrocampo. Oggi, infatti, i TIL si avviano a essere una realtà ma la storia di questi trattamenti dura da oltre cinquant’anni e il cammino verso il loro utilizzo in clinica non è stato affatto lineare.
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