Il dolore è il sistema d’allarme del nostro organismo: quando si trova di fronte a uno stimolo meccanico, termico o chimico che raggiunge un livello di intensità tale da essere pericoloso per l’organismo, l’allarme si attiva. Sebbene sia rodato da millenni di evoluzione umana, ogni tanto questo meccanismo fallisce e il segnale di dolore risulta indipendente da stimoli, diventando così cronico. Una situazione clinica spiacevole che colpisce circa il 20% delle persone in Europa (Fonte: European Pain Federation) e che, nonostante i progressi nella ricerca e l’evidente necessità, non ha ancora visto una soluzione terapeutica efficace e con pochi – o, magari, nulli – effetti collaterali. La terapia genica potrebbe in futuro offrire un’opportunità per la gestione del dolore cronico: su Nature Reviews Neuroscience è stata pubblicata una panoramica sul tema.
In un brano di parecchi anni fa Cesare Cremonini cantava che “gli uomini e le donne sono uguali”, alludendo a una fitta sequenza di atteggiamenti sociali, ma sotto il profilo della fisiologia emergono alcune sostanziali differenze. In ambito cardiovascolare ciò si traduce in uno sbilanciamento di mortalità dopo infarto miocardico acuto nelle donne rispetto agli uomini. Ma il cuore potrebbe essere sede di altre differenze, come quelle legate al maggior numero di miocarditi che sembrano colpire le donne dopo terapia con inibitori dei checkpoint immunitari. Un’interessante ricerca pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine sembra però in grado di fornire una spiegazione a questa anomalia.
In Europa le terapie innovative approvate per l’atrofia muscolare spinale sono tre: una terapia avanzata, la terapia genica onasemnogene abeparvovec (Zolgensma), e due terapie che agiscono sull’RNA , nusinersen (Spinraza) e risdiplam (Evrysdi). Sebbene rappresentino un enorme traguardo, ci sono alcuni limiti e, nel caso della terapia genica, sono ancora in valutazione efficacia e sicurezza a lungo termine. Per questo motivo la ricerca non si è fermata e gli scienziati del Broad Institute of Harvard and MIT (Stati Uniti) - guidati da David R. Liu, uno dei pionieri del mondo CRISPR e delle sua varianti - hanno provato a dimostrare il potenziale del base editing per modificare il DNA e ripristinare la funzione motoria persa con l’avanzare della malattia. A fine marzo il lavoro è stato pubblicato su Science.
Se le malattie neurodegenerative fossero un codice segreto criptato, la chiave a cui gli analisti - o meglio i ricercatori - si potrebbero affidare per svelarlo è una parola di tre lettere: RNA. Infatti, i farmaci della categoria degli oligonucleotidi antisenso (ASO) stanno dando importanti risultati per malattie come l’atrofia muscolare spinale e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), e sono in valutazione contro la malattia di Huntington. Ultima - ma non per importanza - a un tale appello è la malattia di Alzheimer per la quale è allo studio, in un trial di Fase I/b, un nuovo ASO. I risultati preliminari sono stati pubblicati ad aprile su Nature Medicine e mostrano un buon profilo di sicurezza e concrete prove di efficacia della terapia sperimentale.
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