Lo sviluppo di un farmaco richiede la sperimentazione in vitro e su modelli animali con grandi quantità di tempo e di denaro. La bioingegneria potrebbe offrire nuove soluzione.
Intestino, fegato, pelle e rene, tutti in miniatura e collegati tra loro come se fossero un mini-organismo, ma in formato tascabile. Quattro agglomerati cellulari tridimensionali collegati da canali microscopici che mimano il flusso sanguigno in vitro. Lo studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Lab on a Chip aveva l’obiettivo di studiare la farmacocinetica dei farmaci seguendone l’assorbimento nell’intestino, il metabolismo a livello del fegato e l’escrezione dai reni, cosa che gli studi in vitro classici non possono fare. Il dispositivo è formato da agglomerati di cellule cresciute in piccole celle in grado di mimare la struttura e la fisiologia di diversi tessuti, con tanto di circolazione di microfluidi. Un’opportunità unica di modellare e studiare lo sviluppo e l’interazione tra gli organi, di testare la tossicità di sostanze chimiche e di valutare nuovi farmaci in laboratorio, ma su modelli idealmente molto vicini all’organismo umano.
Nella maggior parte degli ospedali e delle cliniche di tutto il mondo, gli oftalmologi fanno diagnosi di retinopatia diabetica ed edema maculare diabetico esaminando gli occhi del paziente e identificando le minuscole lesioni, le emorragie e lo scolorimento che anticipano la cecità diabetica. Ma l’intelligenza artificiale (AI) potrebbe automatizzare questo processo e rendere i controlli più veloci e frequenti. L’AI è una tecnologia con la quale abbiamo a che fare quotidianamente, ad esempio quando utilizziamo i servizi di riconoscimento facciale, gli assistenti digitali o le auto senza conducente. Questi sistemi apprendono dalle informazioni che collezionano dall’ambiente circostante o da data set che gli vengono forniti.
Uno studio clinico di Fase I per valutare l’impatto di una nuova variante di cellule CAR-T che limita gli eventi avversi
Insieme alla tecnologia che ha permesso l’affermarsi di CRISPR, le CAR-T sono, fuori di ogni dubbio, la scoperta più avvincente di questi ultimi anni. Se, da un lato, grazie a CRISPR e all’editing genomico gli scienziati sono in grado di correggere gli errori – a volte letali – che si annidano nella doppia elica del DNA, dall’altro, grazie alle CAR-T, è possibile risvegliare il sistema immunitario e dargli i mezzi per scovare e uccidere le cellule tumorali che erano riuscite ad aggirarlo. Tuttavia, nel settore scientifico le cose non sono mai così immediate come sembrano – altrimenti non ci sarebbe bisogno di fare ricerca e il cancro sarebbe solo un ricordo. Gli effetti off-target (le cosidette modifiche indesiderate) di CRISPR rappresentano il lato oscuro di una tecnologia brillante allo stesso modo in cui la tossicità scatenata dalle CAR-T preoccupa ancora i ricercatori, che ne stanno vagliando la sicurezza, non solamente l’efficacia.
Quali sono i problemi nella scelta degli antigeni per la realizzazione delle CAR-T da usare nei tumori solidi e quali le difficoltà e le problematiche inerenti al loro impiego contro questa classe di neoplasie? Lo spiega il prof. Ciceri dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano
Qualcuno li ha definiti i “Power Rangers” della medicina citando una serie televisiva per ragazzi in voga negli anni ’90 e forse il paragone non è poi così sbagliato se si considera che le CAR-T sono cellule immunitarie – più precisamente linfociti T – che grazie all’ingegneria genetica vengono armate con un recettore chimerico, CAR, grazie al quale possono riconoscere in maniera altamente specifica un antigene espresso dalla cellula tumorale e, in tal modo, uccidere questa cellula.
a cura di Anna Meldolesi
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